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GIORNATA MONDIALE DEGLI OCEANI

Riflettere in merito allo sfruttamento dei mari a causa del consumo alimentare

L’8 giugno è la Giornata mondiale degli oceani. L’evento è stato istituito dall’Onu per fare luce sulla fragilità del sistema marino e per indurre a una riflessione collettiva in merito alla nostra interazione con esso. L’obiettivo è di raggiungere la tutela del 30% dei mari entro il 2030.
Il consumo eccessivo di pesce e le attuali politiche della pesca, dati alla mano, rappresentano la principale minaccia per gli abitanti del mare.
Secondo i più recenti dati Fao, circa il 34,2% degli stock ittici viene pescato a livelli biologicamente non sostenibili. Nel 1970 questa cifra si attestava intorno al 10%.
Secondo l’ex direttore generale della Fao, Josè Graziano da Silva, “dal 1961 ad oggi la crescita annuale globale del consumo di pesce è stata il doppio della crescita demografica”. Se nel 1961 il consumo pro capite annuo di prodotti ittici a livello mondiale era di soli nove chilogrammi, oggi supera i venti.
Per fare il punto della situazione abbiamo posto alcune domande al naturalista Gabriele Bertacchini, autore del libro “Il pesce è finito – lo sfruttamento dei mari per il consumo alimentare” (Infinito edizioni), uscito di recente in libreria.
Come spiega questo aumento nei consumi?
Nel corso del Novecento abbiamo costruito sistemi di conservazione (pensiamo alle celle frigorifere e a quando sono arrivate) e sistemi di trasporto che hanno tolto al pesce il connotato territoriale. L’utilizzo dei prodotti ittici non è più legato alla reale disponibilità di un luogo quanto ad una domanda basata su mode e disponibilità di natura economica. Il loro consumo si inserisce poi all’interno di un sistema più ampio che abbiamo messo in piedi e che definirei “perverso”. Tale sistema non segue le leggi naturali, fatte di tempi di riproduzione, andamenti stagionali e periodi di pausa, quanto quelle del mercato. Da qui un “vecchio” paradosso che ritorna attuale ogni volta che si applica la parola crescita a delle risorse finite e potenzialmente esauribili, se anche considerate “rinnovabili”.
Quali sono le specie maggiormente minacciate?
Bisogna differenziare le diverse zona di pesca, in quanto una specie potrebbe essere “abbondante” in un’area e ridotta all’estremo in un’altra. Il merluzzo nordico, ad esempio, già negli anni ’80 e ‘90, ha subito un collasso zona dei Grandi Banchi di Terranova. Più di recente l’ha subito nella zona del Baltico Orientale, mentre in prossimità delle isole Svalbard è più abbondante.
Comunque, in generale, possiamo dire che tutte le specie più commerciali, quelle che per prime ci vengono in mente, con particolare riferimento a quelle di maggiori dimensioni, non se la passano troppo bene.
A livello globale, in soli sessant’anni, abbiamo aumentato il consumo di tonno (a cui appartengono più specie) del 1000%. Su centosessantatrè specie di cernie, venti sono a rischio di estinzione.
Secondo l’Ong Oceana, il pesce spada, nel Mediterraneo, è diminuito del 70% in poco più di trent’anni. Il nasello presenta un tasso di sovrasfruttamento di 5,5 volte superiore a quello sostenibile con picchi che superano dieci volte il livello di sfruttamento sostenibile nel Mediterraneo occidentale. E ancora Verdesca, Palombo, Smeriglio, Anguilla, Rana pescatrice….L’elenco è davvero molto lungo.
Quali sono le problematiche associate ai moderni attrezzi da pesca?
Il primo problema è che spesso non sono selettivi, finendo per intrappolare anche specie protette da normative internazionali (pensiamo a tartarughe o cetacei). Quelli “industriali” sono stati pensati per catturare con facilità quanti più pesci o prodotti ittici, non per rispettare il mare.
In alcuni casi, ma bisogna differenziare caso per caso, possono catturare anche il doppio rispetto la specie target per la quale si è usciti in barca.
In secondo luogo, pensiamo alle reti a strascico o alle draghe turbosoffianti, possono rovinare l’ecosistema marino. Le prime, con il loro grattare, rimuovono ad esempio i sedimenti, liberano carbonio e rendono l’acqua torbida; le seconde, fanno perdere la consistenza originaria ai fondali sabbiosi nei quali vengono utilizzate, finendo per alterare la fertilità del mare.
Infine, sebbene esistano già soluzioni meno durevoli non molto usate per via dei costi più elevati, sono fatte di materiali che possono restare nei mari per più di cinquecento anni, continuando così la loro opera annientatrice. L’Unione europea stima che circa il 20% delle attrezzature da pesca impiegate in Europa venga disperso in mare
Quali soluzioni vede percorribili?
Ci sono soluzioni che possono partire “dall’alto” e altre “dal basso”, le due cose devono andare di pari passo.
Pensando ai consumatori, se anche può sembrare scomodo e impopolare, bisogna ridurre prima di tutti i consumi. In questo campo non ci possono essere scorciatoie. Come ho scritto nel mio ultimo libro “la natura non può essere fregata con dei giochi di prestigio, seppure ben eseguiti”. Nel 2003, un italiano, consumava in media poco più di ventuno chilogrammi di prodotti ittici. Oggi siamo vicini ai ventinove. L’aumento dei consumi che si è verificato in questi vent’anni ci sta facendo vivere così meglio?
Poi bisogna ridurre gli sprechi. La filiera è fatta di molteplici passaggi e anche il consumatore ha delle responsabilità. Il 35% del cibo che una famiglia italiana butta via è riconducibile a prodotti ittici.
Se si desidera mangiare del pesce è fondamentale differenziare quello che si acquista, rispettando la stagionalità del mare e non domandando sempre gli stessi prodotti.
Infine, penso sia importante “premiare” chi se lo merita. Sono convinto che, per quanto se ne dica, le nostre scelte e i nostri pensieri siano in grado di disegnare il mondo di domani. Vivere in un mondo globale richiede di pensare in modo globale, ed è forse questa una delle maggiori sfide ambientali a cui siamo chiamati.

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