Ieri nel porto di Ravenna un gruppo di attiviste e attivisti di Greenpeace ha dato vita a una protesta spettacolare contro la massiccia importazione di soia che arriva in Italia, in gran parte destinata all’alimentazione degli animali rinchiusi negli allevamenti intensivi. Nel porto di Ravenna transita infatti circa la metà della soia importata nel nostro Paese, la cui produzione causa la distruzione delle foreste e di altri importanti ecosistemi. La protesta pacifica dell’associazione ambientalista ha coinvolto lo stabilimento di Bunge Italia Spa, succursale di Bunge Limited, una delle più grandi aziende dedicate alla produzione e al commercio internazionale di materie prime agricole, inclusa la soia.
Gli attivisti, provenienti da diversi Paesi europei, hanno scalato i silos usati per stipare tonnellate di mangimi e hanno aperto due grandi striscioni: il primo con un’immagine di quasi 200 mq raffigurante degli animali in fuga da una foresta in fiamme, il secondo con la scritta “Soia che distrugge le foreste”. L’azione si è conclusa dopo sei ore con gli attivisti di Greenpeace che hanno dipinto su uno dei silos, alti circa 30 metri, la scritta “Contiene foreste”. Pochi chilometri più in là, un altro gruppo di attivisti, con l’impiego di un maiale gigante in legno riciclato e iuta, ha sbarrato l’ingresso principale dello stabilimento di Bunge Italia, incatenandosi a uno dei cancelli e mostrando uno striscione con la scritta “Soia per mangimi = Deforestazione”.
Dopo Paesi Bassi, Germania e Spagna, l’Italia è tra i principali importatori europei di questa leguminosa, che acquistiamo principalmente da Argentina e Brasile. Da queste due nazioni, che ospitano ecosistemi di grande importanza per la salute del pianeta, proviene infatti circa il 65 per cento della soia importata in Italia nel 2020.
«Ecosistemi come il Cerrado, la savana più ricca di biodiversità al mondo, sono gravemente minacciati dalla produzione agricola industriale e dalla zootecnia, nonostante gli impegni assunti da aziende e multinazionali per proteggerli», commenta Martina Borghi, campagna foreste di Greenpeace Italia. «Bunge, per esempio, si era già impegnata a eliminare prodotti che causano deforestazione dalle proprie catene di approvvigionamento in tutto il mondo entro il 2025, ma continua ad avere interessi commerciali con una grande tenuta agricola come Agronegócio Estrondo, già accusata in passato di deforestazione e accaparramento di terre, e che ancora oggi non esita a farsi largo nel Cerrado brasiliano, distruggendo l’ecosistema e perpetrando violenze ai danni delle comunità forestali tradizionali che vivono e proteggono quelle terre da generazioni».
La settimana scorsa l’Unione Europea ha pubblicato la prima bozza della normativa per proteggere le foreste del mondo, che però ha alcune gravi lacune. Il testo, infatti, riconosce l’importanza di proteggere le foreste ma non altri importanti ecosistemi, come appunto il Cerrado. Inoltre, il rispetto delle normative internazionali per la tutela dei diritti umani non viene considerato tra i requisiti necessari per immettere prodotti e materie prime sul mercato comunitario.
«Se la normativa proteggerà solo le foreste, gli impatti della produzione agricola industriale rischiano di spostarsi su altri ecosistemi che, esattamente come le foreste, ospitano Popoli Indigeni, specie animali e vegetali rare, e svolgono un ruolo importante nell’assorbimento dell’anidride carbonica e nella lotta alla crisi climatica. Proteggere la natura e i diritti umani è fondamentale, perciò chiediamo al ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali Stefano Patuanelli di sostenere l’adozione di una normativa più rigorosa ed efficace da parte dell’UE e dell’Italia», conclude Borghi.
«Governi e aziende sostengono di voler fermare la deforestazione, ma le misure economiche vanno in direzione contraria», afferma Simona Savini, campagna agricoltura di Greenpeace Italia. «Ad esempio, la PAC (Politica Agricola Comune) appena approvata, destina circa due terzi dei finanziamenti europei per l’agricoltura al sistema degli allevamenti intensivi. In questo modo si mantiene una insostenibile pressione sugli ecosistemi naturali a causa dell’elevata domanda di coltivazioni mangimistiche come la soia, oltre che per gli impatti ambientali degli allevamenti stessi. Il governo ha l’occasione di migliorare le politiche agricole italiane, inserendo nel Piano Strategico Nazionale sulla PAC misure per una graduale riduzione della produzione e del consumo di carne e latticini. Se il ministro Patuanelli non sceglierà questa strada, “l’agricoltura sostenibile” di cui tanto si parla rischia di rimanere un concetto vuoto».