Il “Carbon Loophole” è il buco nero delle emissioni che gli stati non dichiarano di produrre perchè esterne ai confini nazionali. L’obsoleto protocollo di Kyoto altera il reale rilevamento delle emissioni dei paesi industrializzati.
Il nuovo rapporto “The Carbon Loophole in Climate Policy” realizzato da per Buy Clean da Ali Hasanbeigi e Cecilia Springer, di Global Eciency Intelligence, e Dan Moran, di KGM & Associates, parte dalla storia della politica climatica e dai cruciali anni ’90: dopo l’istituzione nel 1992 dell’United Nations framework convention on climate change, nel 1997 i governi di oltre 50 Paesi promossero il Protocollo di Kyoto, «inaugurando così formalmente l’era moderna della politica climatica internazionale, concentrandosi sui contributi nazionali per gli obiettivi di riduzione delle emissioni globali».
Ma Hasanbeigi e Moran sottolineano che «Ciò che i negoziatori climatici degli anni ’90 non sapevano all’epoca era che una serie parallela e simultanea di accordi commerciali globali avrebbe creato un’evidente scappatoia rispetto ai loro sforzi per contenere le emissioni di biossido di carbonio che causano i cambiamenti climatici. La costituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio nel 1995 ha aperto le valvole del commercio globale e ha introdotto molti nuovi produttori nella moderna economia globale, portando prosperità e modernità a centinaia di milioni di persone. Ma ha anche innescato un’impennata delle emissioni di carbonio che continua a perseguitare i sostenitori della politica climatica».
Lo studio spiega quale sia il motivo di questo gap: «Gli obiettivi del Protocollo di Kyoto – e gli obiettivi dell’Accordo di Parigi che discendono direttamente da essi – misurano solo le emissioni interne, cioè i gas serra emessi direttamente all’interno dei confini di un Paese. Ma la maggior parte delle nazioni ha capito di poter soddisfare almeno una parte dei propri obiettivi spostando all’estero parte della propria impronta di carbonio. L’impronta di carbonio del consumo di un Paese è effettivamente invisibile per quanto riguarda le metriche e gli obiettivi di Kyoto e Parigi».
Quando venne redatto il Protocollo di Kyoto,si discusse anche del concetto di regolamento delle emissioni esternalizzate, ma questo contributo fu considerato troppo piccolo e complesso da determinare per essere incluso nel trattato.
Un errore clamoroso: «Oggi – spiegano i ricercatori – oltre il 25% delle emissioni globali di gas serra sono incorporate nel commercio e nel flusso attraverso questo “carbon loophole”», cioè le emissioni “fantasma” legate alla produzione di beni che alla fine vengono commercializzati oltre i confini internazionali. Il rapporto fa notare che «Con il loophole, le emissioni scambiate vengono attribuite ingiustamente ai produttori, mentre le nazioni consumatrici godono dei benefici di “raggiungere i loro obiettivi” senza dover ridurre l’inquinamento derivante da una parte sostanziale della loro attività economica. Quello che una volta era una piccola omissione a Kyoto ora minaccia di indebolire le nostre ambizioni per la politica climatica».
La cosiddetta scappatoia del carbonio è diventato uno dei problemi più urgenti e discussi negli ambienti della politica climatica internazionale e secondo lo studio «La corretta quantificazione del carbon loophole e la definizione di interventi politici per affrontarlo dovrebbero essere una priorità assoluta per la comunità politica climatica».
Il nuovo studio aggiorna i lavori precedenti per quantificare davvero la scappatoia del carbonio e dimostra perché chiudere questo gap è sempre più urgente. A Buy Clean dicono che «Le nostre scoperte dimostrano che, in molti casi, i Paesi che hanno chiesto riduzioni nette delle emissioni di carbonio vedono queste riduzioni completamente o per lo più spazzate via quando viene presa in considerazione la scappatoia del carbonio. La tendenza generale è che i Paesi ad alto reddito e consumo elevato (Stati Uniti, Europa, Giappone, Australia e simili) hanno obiettivi dell’Accordo di Parigi calibrati sulle loro emissioni nazionali, mentre le loro impronte di carbonio reali sono molto più grandi».
L’Unione Europea è nota per le sue politiche di riduzione delle emissioni di gas serra, ma Buy Clean ha pubblicato nel “Closing Europe’s Carbon Loophole”, un’approfondimento sulla situazione delle esternalizzazione dei gas serra da parte dei Paesi Ue, dal quale emerge che «Quando vengono incluse le merci importate, le emissioni dell’Ue sono sostanzialmente rimaste allo stesso livello dal 1990». Il rapporto evidenzia che «Le emissioni basate sul consumo in tutta l’Ue superano ora le emissioni totali basate sulla produzione del 25-30%; in alcune nazioni, la crescita delle emissioni basate sul consumo è sostanzialmente più alta che in altre» e tra queste ai primi posti c’è l’Italia. Infatti, il rapporto classifica gli stati membri dell’Ue in base alla quantità di emissioni assolute e relative importate attraverso i prodotti commercializzati e i principali importatori di carbonio che, in termini assoluti, sono: 1. Germania; 2. Regno Unito; 3. Francia; 4. Italia; 5. Spagna.
A risaltare a livello mondiale è il caso del Regno Unito le cui emissioni interne sono vicine o inferiori ai livelli del 1990, ma l’impronta del consumo della Gran Bretagna è aumentata notevolmente. «Secondo gli obiettivi di Kyoto, il Regno Unito potrebbe dire “Missione compiuta” – fanno notare i ricercatori – ma questo è abbastanza lontano da essere vero»
A Buy Clean sono convinti che per chiudere la scappatoia del carbonio il primo passo sia semplicemente quello di quantificarla esattamente insieme all’impronta di carbonio dei prodotti e aggiungono: «Ci sono una miriade di soluzioni già disponibili per chiudere il carbon loophole. Misure che sono disponibili sia per i governi che per le società private. Le soluzioni politiche, come il Buy Clean Act della California, stabiliscono standard di carbonio per alcuni delle industrie più pesanti, come l’acciaio; questo approccio allinea le priorità di spesa e climatiche e può essere implementato rapidamente, spesso a costo zero sia dai governi che dalle compagnie private».
Ma Hasanbeigi e Moran fanno notare che «Sono i governi i principali agenti di acquisto. Gestiscono flotte, costruiscono scuole e edifici e commissionano importanti progetti che utilizzano grandi quantità di acciaio, cemento e altri prodotti ad alta intensità di carbonio. Quando i governi fanno del “comprare pulito” una questione di politica, possono avere un impatto reale nel chiudere la scappatoia di carbonio».
Altre soluzioni includono concetti come la definizione di frontiere del carbonio, che aiutano a garantire che le industrie pulite non siano penalizzate da una politica climatica disomogenea tra i partner commerciali; o i “club climatici” di Paesi che vogliono formare blocchi commerciali low carbon.
Hasanbeigi e Moran concludono: «La chiave è capire che le emissioni di carbonio non rispettano i confini internazionali e quindi nemmeno i nostri sforzi per ridurle. Con il 25% delle emissioni globali di carbonio in ballo, affrontare il carbon loophole non è opzionale. Adottando i principi generali di Buy Clean, i Paesi e le aziende possono contribuire a chiudere la scappatoia del carbonio, liberando gli investimenti nelle tecnologie pulite e mantenendo il loro vantaggio competitivo».
(Green Report)