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Il paradosso delle tasse ambientali che non servono a tutelare l’ambiente

Le tasse ambientali di fatto sono ancora a livelli praticamente nulli in Italia, un vero e proprio paradosso se si raffronta il loro livello con le tasse che gravano sul lavoro. Un tema che però non è mai andato molto di moda nel nostro Paese

(GreenReport)

Che fine fanno le tasse ambientali riscosse ogni anno in Italia? Secondo gli ultimi dati Istat, aggiornati ieri, sui 57,38 miliardi di euro incassati dallo Stato nel 2017 – in calo rispetto ai 58,7 del 2016 – appena 640 milioni di euro sono destinati a spese per la protezione ambientale: circa l’1,1%. Solo per questa minima frazione si può dunque parlare di “imposte di scopo”, ossia imposte il cui gettito è destinato a finanziare spese per la protezione ambientale, mentre i rimanenti 56,7 miliardi di euro di gettito finiscono a finanziare tutt’altre partite.

Ma di che tasse stiamo parlando, in concreto? Come spiega direttamente l’Istat, le imposte ambientali «costituiscono prelievi obbligatori non commisurati ai benefici che il singolo riceve dall’azione delle amministrazioni pubbliche. Un’imposta è ambientale se la sua base impositiva è ‘costituita da una grandezza fisica (eventualmente sostituita da una proxy) che ha un impatto negativo provato e specifico sull’ambiente’. Tale approccio, mutuato dalle linee guida internazionali per la compilazione di statistiche sulle imposte ambientali, assegna un ruolo fondamentale alla base impositiva per stabilire l’inclusione o meno di una imposta nell’insieme delle imposte ambientali, mentre non risulta determinante l’obiettivo dell’imposta per come risulta espresso dal legislatore».

Tutto questo significa che le tasse ambientali, così come vengono attualmente censite, comprendono «sia le imposte introdotte con esplicite finalità di tipo ambientale sia le imposte in cui una tale finalità non si ravvisa nella formulazione normativa». Esaminarle in dettaglio rende molto più semplice capire la differenza. Le tasse ambientali più consistenti censite dall’Istat rientrano ad esempio all’interno del capitolo “energia”, che valgono 45,6 miliardi di euro: si va dalla “sovraimposta di confine sui gas in condensabili” alla “imposta sui consumi di carbone”, da quella “sul gas metano” alle “entrate dell’Organismo centrale di stoccaggio italiano”.

La seconda voce tra le tasse ambientali, in termine di consistenza di gettito (pari a 11 miliardi di euro), risulta invece quella del “trasporto”: qui si ritrovano imposte che molto poco sembrano a che fare con l’ambiente, come il “Pubblico registro automobilistico (Pra)”, la “imposta sulle assicurazioni Rc auto” o le “tasse automobilistiche a carico delle famiglie”. Ancora minore l’importo del gettito relativo alle tasse più facilmente associabili a fattori ambientali, come quelle relative alla voce “inquinamento”: qui compaiono il “tributo speciale discarica”, la “tassa sulle emissioni di anidride solforosa e di ossidi di azoto”, il “tributo provinciale per la tutela ambientale” e la “imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili”. Tutto per il modico gettito di 686 milioni di euro su 58,7 miliardi totali.

Ecco perché illustri economisti ambientali come Massimiliano Mazzanti hanno più volte spiegato sulle nostre pagine che le tasse ambientali di fatto sono ancora a livelli praticamente nulli in Italia, un vero e proprio paradosso se si raffronta il loro livello con – ad esempio – le tasse che gravano sul lavoro. Una riforma fiscale realmente ambientalista sarebbe dunque chiamata a incrementare le tasse ambientali (un esempio su tutti? La carbon tax), riducendo quelle sul lavoro. Un tema che però non è mai andato molto di moda nel nostro Paese: quella del governo M5S-Lega, che al cuore delle proprie riforme fiscale ha inserito una proposta profondamente iniqua come la flat tax, è solo l’ultima delusione.

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