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Sorella acqua, fonte di vita. Ma è così necessario bere acqua minerale?

L’Italia è il secondo consumatore al mondo, dopo il Messico, con una spesa di 10 miliardi l’anno. Ma, a differenza di quelli sudamericani o africani, i nostri acquedotti garantiscono la qualità. Spesso predomina lo “snobismo gastronomico”

Il Venerdì -La Repubblica-, Antonio Massarutto

Per non annegare in un bicchiere d’ acqua, è bene partire dai numeri. Punto primo: gli italiani bevono, in media, 206 litri di minerale ciascuno all’ anno (siamo secondi solo al Messico). Spendendo qualcosa come 10 miliardi di euro.

Punto secondo: l’ acqua è un bene demaniale, il cui uso (qualsiasi uso, compreso il bere) è regolato dallo Stato. Punto terzo: per prelevarla si paga un canone di 2 millesimi di euro per litro, circa 18 milioni di euro, meno del 2 per mille della spesa totale.

Detto così, fa impressione: e infatti c’ è chi si chiede come sia possibile permettere che imprese private, spesso multinazionali, saccheggino il “bene comune” lasciando al territorio solo le briciole.

In realtà, il consumo di acqua minerale non intacca nemmeno marginalmente l’ equilibrio del bilancio idrico. Insomma, non è certo per colpa della minerale se i fiumi vanno in secca, o i campi soffrono la sete.

E sebbene ancora vi siano località dove gli acquedotti funzionano a singhiozzo, le falde sono inquinate o contengono naturalmente sostanze indesiderate come l’ arsenico (senza contare il sapore, non sempre dei migliori), si può affermare che in Italia l’ acqua minerale è un bene voluttuario.

Ovvero, chi la beve lo fa per scelta e non per necessità. Nulla a che vedere con quei Paesi, in Africa e America Latina, dove l’ acqua erogata dal servizio pubblico, se c’ è, quasi mai è potabile. Gli italiani, invece, potrebbero tranquillamente bere quella “del rubinetto”.

Ed è solo per effetto di una pubblicità martellante, di paure ataviche, dello snobismo gastronomico (c’ è chi la usa perfino per cuocere la pasta e fare il caffè) che la minerale è percepita come una “necessità”.

Così, se gli italiani, pur di immaginarsi altissimi e purissimi, sono disposti a sborsare circa 70 centesimi a litro (più la fatica di portarsi le bottiglie a casa) e se una famiglia media spende per la minerale 129 euro l’ anno, tanto quasi quanto paga per il servizio pubblico, si potrebbero progettare campagne per ricordare che l’ acqua “di rubinetto” è buonissima: ma poi, alla fin fine, perché? Il consumo della minerale non toglie nulla a nessuno.

Altra questione che divide è il canone demaniale, la tassa che gli imprenditori delle acque minerali pagano alle Regioni in cambio del diritto di prelevarla e imbottigliarla: attualmente è di 2 millesimi di euro al litro.

Un costo irrisorio (come peraltro per tutti gli altri usi dell’ acqua, idroelettrico a parte) a fronte dei 2,8 miliardi fatturati dalle imprese che si basano su una materia prima che è gratis: l’ acqua.

Guardando i conti però, vanno considerati i costi delle bottiglie vuote, gli impianti che le riempiono, tappano, etichettano e confezionano, i controlli di qualità, le persone che se ne occupano, la pubblicità, i testimonial, le tasse.

 L’ utile per le imprese è di 143 milioni, mentre nelle casse delle Regioni di milioni ne vanno 18: il 13 per cento dell’ utile totale.

Le imprese leader che da sole rappresentano il 75 per cento del mercato, in proporzione guadagnano un po’ più delle altre. Ma anche se questo è un settore dominato da una decina di grandi marchi, rimane ancora abbastanza concorrenziale, condizione questa che impedisce di far salire troppo i prezzi.

Abbiamo infatti ben 265 etichette tra cui scegliere e anche se non tutte sono distribuite capillarmente sul territorio nazionale, ne resta un numero sufficiente in ogni ambito locale.

C’ è allora chi propone di aumentare i canoni demaniali, addirittura di decuplicarli. Verosimilmente però questa tassa si riverserebbe sui consumatori (senza intaccare i margini delle imprese), trasformandosi nell’ ennesima accisa.

Con benefici assai dubbi anche sul piano ambientale. Perché i costi del consumo di minerale sono legati non tanto all’ acqua, ma alle bottiglie: quei milioni di contenitori che finiscono nella spazzatura.

Ed è proprio su questo punto che dovremmo concentrare gli sforzi. Un problema che non si risolve tassando il consumo di acqua ma, piuttosto, quello di bottiglie e confezioni, con strumenti analoghi a quelli impiegati per le buste del supermercato, favorendo invece chi usa materiali più ecologici, come vetro, bioplastiche o cartone, o meglio ancora contenitori riutilizzabili. E per quelle che rimarranno, va potenziato il riciclo.

La nuova direttiva varata dall’ Unione europea prevede di riciclare almeno il 55 per cento dei contenitori in plastica entro il 2030, e di recuperare il restante 45 sotto forma di energia.

In Italia siamo già ora, rispettivamente, al 44 e al 40 per cento: un risultato che dobbiamo all’ impegno dei consorzi di filiera finanziati dai produttori. Anche questa “eco-tassa” si riversa sul prezzo finale, ma dà un segnale corretto rispetto al problema ambientale da risolvere.

Consumiamo (inutilmente) troppa minerale. E il canone pagato dalle multinazionali è senz’altro irrisorio. A creare problemi seri, però, non è tanto il contenuto. Ma il contenitore.

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