L’impronta idrica dipende molto dal tipo di alimentazione che si segue. Se decidessimo “in blocco” di diventare vegetariani risparmieremmo fino al 55% di acqua. Sarà anche vero, ma modificare gli stili di vita dell’intera umanità è pura utopia
Mangiare meno carne rossa e adottare una dieta sana abbatterebbe l’impronta idrica di una nazione “tipo” dell’Europa occidentale anche del 35%. Se la carne fosse rimpiazzata dal pesce, la riduzione dei consumi d’acqua nei processi produttivi arriverebbe al 55%; convertirsi a una dieta completamente vegetariana comporterebbe – dato interessante – praticamente lo stesso risparmio.
Il messaggio che emerge dall’ultimo studio sull’impronta idrica nell’alimentazione condotto dalla Commissione Europea e pubblicato su Nature Sustainability è inequivocabile: attenersi a una dieta povera di carni rosse, zuccheri, oli da coltivazione e grassi animali non solo fa bene alla salute, ma riduce di molto il nostro contributo al prosciugamento delle risorse mondiali di acqua dolce.
Lo studio guidato da Davy Vanham, scienziato del Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea, ha preso in considerazione l’acqua che “mangiamo”, ossia quella necessaria a produrre cibi e bevande, in tre Paesi: Inghilterra, Francia e Germania. Gli autori hanno raccolto i dati attuali sull’impronta idrica legata ai consumi alimentari in 44 mila distretti nei tre Paesi, e li hanno confrontati con alcuni indicatori socio-economici (per esempio età, genere e livello di istruzione) che possono incidere sulle abitudini a tavola.
Tra i tre Paesi considerati, l’Inghilterra ha l’impronta idrica più contenuta (2.757 litri al giorno a persona), contro i 2.929 della Germania e i 3.861 della Francia. I maggiori consumi dei francesi sono dovuti al più alto consumo di vino, la cui produzione richiede circa 7 volte la quantità d’acqua necessaria a quella della birra, e alla preferenza per la carne rossa, responsabile del 40% dell’impronta idrica francese legata al consumo di cibo.
Sono emerse inoltre importanti differenze regionali e socio-economiche. Per esempio le aree rurali hanno in genere un’impronta idrica maggiore, a causa del maggiore consumo di carne: a Londra si consuma meno carne rossa che nelle regioni del sud-ovest dell’Inghilterra, ma si “compensa” in altro modo. Chi ha il reddito più alto e un titolo di studi più elevato in città acquista anche più vino, e i ritmi frenetici possono portare a un’alimentazione più disordinata.
Tremila litri d’acqua al giorno a persona significa circa un milione di litri all’anno: è l’equivalente di riempire tre volte la piscina comunale sotto casa, dopo averla completamente prosciugata. Servono 15 mila litri d’acqua per produrre un chilo di manzo, 1000 per ottenere un chilo di grano. Senza contare gli effetti di una dieta non sana, troppo ricca di grassi e derivati animali, sulla salute: se si mangiano carne rossa, latte e formaggi in quantità eccessive si consumano in genere meno frutta e verdura.
Vanham e colleghi hanno infine calcolato come un passaggio collettivo a un’alimentazione corretta – calcolata sulla base delle linee guida nazionali – potrebbe cambiare le cose. Convertirsi al vegetarianesimo o a una dieta pescetariana ridurrebbe i consumi d’acqua nazionali dal 33 al 55 per cento. Una dieta sana che includa la carne in quantità equilibrate, ne abbatterebbe comunque una fetta compresa tra l’11 e il 35 per cento. Quest’ultima regola non sarebbe una grande rivoluzione nelle abitudini, ma avrebbe effetti rivoluzionari. L’impatto più significativo si noterebbe nelle grandi città, come Londra, Parigi, Berlino, Amburgo e Monaco.
Ma è anche vero che un “passaggio collettivo” a nuovi stili di vita rappresenta un’utopia di quasi impossibile realizzazione. L’informazione scientifica corretta -è vero- può fare miracoli, ma non può raggiungere chiunque né indottrinare il prossimo con dogmi sempre suscettibili, poi, di essere smentiti da altra informazione scientifica anch’essa altrettanto provata e corretta. E le cattive abitudini sono e saranno sempre le più difficili da modificare.