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Frida. Viva la vida – La nostra recensione

Bernard Silberstein (1905–1999), United States, Frida Kahlo, 1940 circa, printed 1984, gelatin silver print, Cincinnati Art Museum © Edward B. Silberstein. Courtesy Nexo Digital

Amore, morte, radici, bellezza e, su tutto, la potenza di quelle opere che André Breton paragonava a “un nastro intorno ad una bomba”, pronte a colpire con la deflagrazione di un’anima impregnata di dolore fisico e impegno politico, aborti e delusione per l’amore tradito. Fantasmi che una piccola donna di nome Frida prova a esorcizzare ritraendo il dolore con pennellate intrise di pittura e lacrime.
È una Frida Kahlo sorprendentemente umana e inedita quella che emerge dal docufilm Frida. Viva la Vida, diretto da Giovanni Troilo, prodotto da Ballandi Arts e Nexo Digital, in collaborazione con Sky Arte, nelle sale il 25, 26 e 27 novembre.
L’apertura del bagno dell’artista, avvenuta nel 2004 nella sua casa di Città del Messico, assieme ad alcuni bauli e scatoloni, a 50 anni dalla morte, ha restituito oggetti personali, intimi, normalmente non accessibili al pubblico, immortalati dalla fotografa messicana Graciela Iturbide, autrice di una sorta di “reportage della sofferenza”.
Eppure accanto alla protesi, agli abiti, ai corsetti della donna fisicamente offesa, c’è l’energia della femme bohémienne, innamorata dei Mariachi e della Tequila, capace di trasformare il dolore in un’opera d’arte che spalanca le porte all’ icona pop. Circondata da una famiglia premurosa, stimolata da una nazione in fermento, da ragazza abituata a camminare in un mondo di colori, Frida approda al suo pianeta di dolore, trasparente come il ghiaccio, che la costringe a diventare vecchia in pochi istanti, consegnandola a un universo insipido e piatto.
Il racconto cinematografico, che procede secondo più piani narrativi, segue i binari di un ossimoro profondo. Inizia con due Frida nate insieme, all’età di 18 anni, quando, nel giorno del terribile incidente stradale, un corrimano dell’autobus sul quale viaggia le attraversa l’addome provocandole un trauma che si porterà dietro per sempre.
Da un lato c’è l’icona, la donna forte e indipendente anche dopo il divorzio da Diego Rivera; dall’altro l’artista libera nonostante le costrizioni di un corpo martoriato dalle conseguenze dell’incidente in autobus.
Forte, nel docufilm, è il binomio eros-thanatos che è anche un retaggio dell’amore di Frida verso le proprie origini, residuo di un Messico pre-colombiano i cui popoli ponevano il dualismo alla base del mondo.
Del resto, dopo la rivoluzione del 1910, il Messico aveva provato a riscoprire le proprie origini attraverso l’iconografia pre-colombiana, la stessa con la quale l’artista esplora l’identità degli opposti: dolore e piacere, tenebre e luce, luna e sole, la vita nella morte e la morte nella vita.
Ripercorrere la vita di Frida Kahlo significa così cercare il punto di contatto tra la sofferenza delle vicende biografiche e l’amore incondizionato per l’arte, la stessa che le darà la forza per vivere, nonostante tutto.
Non a caso a contenere le ceneri della pittrice, che riposa dentro Diego, è un’urna, un reperto pre-ispanico, quel “Saporrana” (piccolo rospo) che era anche il nome con cui Frida chiamava il suo amato e odiato Rivera. Ed eccoli l’elefante e la colomba, sposi falliti e nuovamente amanti uniti da una sorta di inossidabile malia che dura fino alla morte e anche oltre.
Dopo la Casa Azul, dimora dell’artista, e il Museo Frida Kahlo con la sua direttrice Hilda Trujillo, il viaggio alla scoperta della pittrice prosegue, con lo storico dell’arte James Oles, alla volta della Piramide del Sole, il più grande edificio di Teotihuacan ed uno dei più grandi dell’intera Mesoamerica, visitato da Frida proprio perché impregnato della storia dei popoli mesoamericani. E ancora nella bottega del muratore e operaio Alfredo Vilchis, divenuto artista quasi per caso dipingendo miniature, e che spiega quanto importante sia la tradizione degli gli ex-voto – presenti anche in molti quadri dell’artista – nel Messico contemporaneo.
Il pubblico incontra Cristina Kahlo, pronipote di Frida; l’insegnate d’arte del Wellesley College e curatore aggiunto di arte latinoamericana al Davis Museum James Oles e ancora Carlos Phillips, amministratore delegato del Museo Frida Kahlo, dell’Anahuacalli di Diego Rivera e del Museo Dolores Olmedo, e poi la ballerina Laura Vargas.
Decisamente vincente la scelta di affidare a un’intensa Asia Argento – che aggancia lo spettatore per condurlo alla scoperta del duplice volto della pittrice – le parole della stessa Frida, estrapolate da lettere, diari, confessioni private.
Un plauso particolare merita infine la colonna sonora del docu-film (Nexo Digital/Sony Masterworks), firmata da Remo Anzovino, autore anche della “Yo te cielo (cancion para Frida)”, il cui titolo proviene da una celebre lettera della donna, cantata da Yasemin Sannino e arricchita dalla voce della tromba di Flavio Boltro.

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