“Non potrei fare uno di questi grandi tagli mentre qualcuno si muove intorno a me”, confidò una volta Lucio Fontana a Ugo Mulas, il “fotografo degli artisti” che con i suoi scatti ha aperto al pubblico il backstage di protagonisti e capolavori del secondo Novecento. “Ho bisogno di molta concentrazione”, proseguì il maestro italo argentino, “cioè non è che entro in studio, mi levo la giacca e trac! Faccio tre o quattro tagli. No, a volte la tela la lascio lì appesa per settimane prima di essere sicuro di cosa ne farò, e solo quando mi sento sicuro parto, ed è raro che sciupi una tela. Devo proprio sentirmi in forma per fare queste cose”. Forse è per questo, osservò Mulas, che i Tagli di Fontana si chiamano Attese. Il fotografo fu costretto a un compromesso: la memorabile sequenza in cui ci consegna il padre dello Spazialismo nell’acme della creazione è in realtà un’efficace messa in scena.
Lucio Fontana, Concetto spaziale, Attese, 1964, Idropittura su tela | Courtesy Fondazione Lucio Fontana
Dal 1958 al 1968 Fontana di Tagli ne realizzò circa 1500: la parte più nota del suo lavoro, ma anche la più discussa. “È una trovata pubblicitaria”, tuonarono i più diffidenti, “sarei capace di farlo anch’io”, azzardò qualche temerario, tra cui un chirurgo capitato nello studio dell’artista. “Anch’io saprei tagliare una gamba”, rispose Fontana, “ma al paziente potrebbe costare la vita”. In verità per produrre le famose fenditure su fondo giallo, rosso, bianco, ed evitare che la tela cedesse o si deteriorasse fu messa a punto una tecnica rigorosa e attenta ai dettagli. I falsari non sono mancati, ma nessuno ha mai avuto la mano sicura del Maestro.
Lo Spazialismo, un’avventura nell’infinito
I Tagli di Fontana fanno parte di una categoria più ampia: sono tutti Concetti Spaziali, e come tali si aprono su un’idea: quella di un’arte che abbandona “la tela, il bronzo, il gesso e la plastilina” per farsi “pura immagine aerea, universale, sospesa”, come è scritto nel Primo Manifesto dello Spazialismo. È il 1947 e l’artista, nato a Rosario di Santa Fe nel 1899 e cresciuto a Milano, è appena tornato dall’Argentina dove si è affermato come scultore, forte degli studi all’Accademia di Brera sotto la guida di Adolfo Wildt. Nella valigia ha un documento rivoluzionario – il Manifiesto Blanco, scritto un anno prima – e un’attitudine profetica che lo porterà ad anticipare anche Pollock. I cieli sono ormai regolarmente percorsi da moltitudini di aerei e si pensa già alla conquista dello Spazio, nei laboratori scientifici continua la ricerca su raggi ed elettroni, mentre la televisione fa viaggiare nell’etere immagini immateriali. Che senso ha in questo mondo un’arte ancorata i limiti del visibile? Perché restare confinati sulla Terra? Fontana crede nel futuro e nell’intelligenza dell’uomo. Con lo Spazialismo cerca “un’altra dimensione”, un’arte capace di andare oltre la materia.
Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1951, Olio e sabbia su tela | Courtesy Fondazione Lucio Fontana
Dai Buchi ai Tagli: oltre il visibile, a colpi di coltello
Fontana inizia a forare prima la terracotta, poi le tele. Nascono i famigerati Buchi, che assumono la forma di vortici e di sequenze ritmiche, in seguito arricchite con frammenti di vetro (le Pietre). Come un tabù di cui non si conosce l’esistenza, si sbriciola clamorosamente l’integrità della tela, da secoli sacra per ogni pittore, e l’illusione di un mondo che si esaurisce al suo interno. “Mi hanno detto che bucavo per distruggere, ma io bucavo per trovare”, racconterà l’artista. Oltre quei fori c’è il segreto del cosmo, attraverso di loro la luce si apre al buio e il buio alla luce. Non tutti sono preparati a comprendere. Peggy Guggenheim commenta con sufficienza: “Fontana è così noioso con quei suoi buchetti“.
Lui va avanti per la sua strada e scopre che il modo più semplice e concettuale di trapassare il muro del visibile è un colpo di coltello: armato di facòn, il gaucho argentino si fa strada nell’ignoto, con in tasca la fede nella scienza e il senso del mistero di Jorge Luis Borges. Il buco diventa ferita: in tempi di Guerra Fredda e di minacce atomiche, qualcuno vedrà nelle sue opere il frutto di una violenza. O un sesso femminile, 100 anni dopo l’Origine del mondo di Courbet. Sono dipinti o sculture? La distinzione ormai non è rilevante.
Lucio Fontana, Concetto spaziale, La fine di Dio, 1964, Olio, squarci, buchi e graffiti su tela | Courtesy Fondazione Lucio Fontana
Un tuffo nella luce: la novità degli Ambienti
Fontana comincerà a guadagnare veramente dalla sua arte soltanto a 60 anni, e non senza polemiche. Ma la vera consacrazione arriverà ancora più tardi: nel 2015 il Concetto spaziale La Fine di Dio sarà venduto a New York, da Christie’s, per oltre 29 milioni di dollari, record assoluto dell’artista in un’asta. “Per me significa l’infinito, la cosa inconcepibile, la fine della figurazione, il principio del nulla”, era stata la sua spiegazione.
Dall’avventura spazialista nasceranno anche le Strutture al neon, avvolte su se stesse come scie luminose in una galassia, e gli Ambienti, straordinarie macchine sensoriali riunite recentemente in una mostra al Pirelli Hangar Bicocca di Milano. Ancora una volta in anticipo sui tempi, nel 1949 Fontana trasforma l’esperienza del visitatore: dallo sguardo a distanza all’immersione in una nuova dimensione spazio-esistenziale. L’opera è Ambiente spaziale a luce nera, un tunnel completamente vuoto da attraversare, che suscita scalpore nel capoluogo lombardo alla Galleria del Naviglio.
Lucio Fontana, Concetto spaziale, Natura, 1959-1960, Bronzo | Courtesy Fondazione Lucio Fontana
Barocco o concettuale? Un artista dalle molte anime
Oltre che per le sue innovazioni visionarie, Fontana colpisce per l’incredibile varietà della sua ricerca, capace di rivelare sempre nuovi aspetti e prospettive. Lui stesso si definisce “pittore o scultore astratto o realista”. Da giovane, nel suo studio argentino, produce sculture di sapore cubista o ispirate all’opera di Aristide Maillol. In Italia subisce l’influenza di Marino Marini, Fausto Melotti e perfino di Arturo Martini. Lavora gesso, metalli, terracotta, realizza disegni ed opere grafiche. Diviene abilissimo creatore di ceramiche, con una particolare passione per quella di Albissola, e nel suo curriculum non mancano collaborazioni con architetti d’avanguardia. Negli anni Cinquanta si cimenta anche con l’arte sacra: al Museo del Duomo di Milano si conserva il terzo dei suoi bozzetti per la Quinta Porta della cattedrale, un progetto mai portato a termine nonostante il primo posto al concorso indetto dalla Veneranda Fabbrica.
Ma ciò che più stupisce esaminando l’opera di Fontana è la sua anima barocca e figurativa, apparentemente in contraddizione con quanto detto finora, che ritroviamo nel ritratto in ceramica della moglie Teresita o nel Gallo in mosaico nero e oro. Con un colpo di cutter il Maestro italo-argentino taglia la strada che va percorrendo, e torna al punto di partenza: per guardare il mistero nascosto oltre quella materia che tanto ben padroneggia e di cui invece si sente schiavo.
• La Struttura al neon di Lucio Fontana nel racconto di Anna Maria Montaldo