Sono i numeri a fissare per prima cosa quell’epopea un po’picaresca e un po’eccezionale che oggi è diventata di culto come il titolo stesso del film, “Un sacco bello”. 40 anni dalla data dell’uscita (il 19 gennaio del 1980); 5 settimane e due giorni (invece delle sette previste, per la gioia di un produttore ufficiale, al secolo l’esperto Romano Cardarelli e di uno reale dietro le quinte, ovvero Sergio Leone); poco più di 500 milioni delle vecchie lire il budget garantito dalla distribuzione Medusa sulla parola di Leone e invece oltre due miliardi e mezzo lo strabiliante incasso che proiettò il neo-regista Carlo Verdone nell’olimpo delle maschere comiche di una nuova commedia italiana; 3 i premi vinti in poche settimane, dal Globo d’oro e dal Nastro d’argento per l’attore rivelazione al David di Donatello speciale a incoronare un novello Fregoli dell’interpretazione che si era diretto da solo dividendosi davanti all’obiettivo in 3 protagonisti e altrettanti comprimari.
Ciascuno coi suoi tic, le sue manie, i suoi tormentoni indimenticabili che venivano dalla gavetta di teatrini off come l’Alberichino a Roma e poi dalla grande scuola del varietà televisivo “No Stop” firmato da Enzo Trapani e trampolino di lancio per il giovane Verdone, allora nemmeno trentenne. Romano, di buona famiglia e buoni studi (il padre è lo storico del cinema Mario), beniamino del pubblico come attore e regista di quasi 30 pellicole Carlo Verdone fissa oggi in un’istantanea nostalgica quel debutto. “La grande intuizione – dice oggi – è di aver collocato tre storie di solitudine, tre personaggi involontariamente comici, in una Roma agostana, assolata e deserta ma piena di un’umanità, di un calore, di suoni e scorci che oggi non esiste più, ma che il cinema rende immortale”. Questa dualità sottile e nascosta del film (solitudine e comicità) è certamente il segreto di un successo che Sergio Leone intuì per primo e consegnò a sceneggiatori esperti come Leo Benvenuti e Piero De Bernardi perché dessero alle maschere comiche di Verdone una struttura narrativa.
Il modello deriva in qualche modo dal film a episodi della commedia all’italiana e rimanda soprattutto a “I mostri”, ma diversamente da quella stagione la sceneggiatura di “Un sacco bello” intreccia le cronache minute di Enzo, Leo e Ruggero con una libertà quasi situazioni sta che ha per ragione e sfondo comune proprio la città d’estate, terreno di solitudine e di destini incrociati. Così Enzo, che vorrebbe partire per una gita erotica nell’Europa dell’est si arena alle porte di Roma; Leo cerca in ogni modo di sfuggire al ferragosto a Ladispoli con la madre e finisce solo nonostante la speranza di un incontro amoroso che poteva dargli una via di fuga; Ruggero non può evitare il confronto col padre che vorrebbe riportarlo sulla “retta via” dopo una stagione di sogno hippie (o “capellone”). Non c’è dubbio che lo sketch prevale sulla storia e che i momenti indimenticabili del film sono tutti scritti sulla faccia, attonita e stranita, del protagonista; ma è altrettanto indiscutibile che il film conserva una freschezza e una vitalità che poche volte si sarebbero ripetute in quel decennio.
A dar forza a “Un sacco bello” sono poi senz’altro i grandi professionisti che Leone e Verdone seppero scegliere per sventare le paranoie e le legittime paure dell’attore che divenne regista controvoglia, giacché tentò di farsi guidare da maestri più esperti prima di cedere ai consigli del suo mentore che aveva scommesso sul suo talento. Così troviamo tra gli attori una storica maschera trasteverina come Mario Brega che nei western di Sergio Leone si era costruito una fama e un personaggio; alle scene c’è il fidato Carlo Simi e le musiche sono firmate da Ennio Morricone; la fotografia è di Ennio Guarnieri e il montaggio di Eugenio Alabiso che aveva lavorato con Leone a partire da “Per qualche dollaro in più”. Insomma un piccolo esercito di “pretoriani” di lungo corso che non potevano tradire e accompagnarono Carlo Verdone passo dopo passo verso il successo. Al resto pensò proprio lui che la notte prima dell’esordio si dice non avesse nemmeno il coraggio di presentarsi sul set. Finché nel cuore della notte, il papà adottivo Leone non suonò alla sua porta per trascinarlo fuori in una lunga passeggiata notturna attraverso la Roma deserta sotto la luna. Ed è forse proprio la riscoperta di questo protagonista a sorpresa (la città) che rassicurò l’incerto debuttante spingendolo a osare il massimo e ad ottenere il massimo.
(ANSA).