Un mondo affamato, di bambini stipati nelle scuole e negli orfanotrofi, dove la violenza della natura e l’indifferenza delle istituzioni colpiscono senza pietà uomini, donne e animali. Una realtà sconvolgente che un maestro del cinema come Luis Buñuel , da autore trentenne, racconta a inizio anni ’30, nel suo documentario Terra senza pane (Las Hurdes) dopo aver rotto il legame artistico con l’amico, compagno nelle avventure surrealiste di Un Chien Andalou e L’age d’or. Un percorso coinvolgente e profondo, d’uomo e d’artista, raccontato in animazione 2d da ‘”Buñuel – Nel labirinto delle tartarughe’, il film di Salvador Simo’, nelle sale italiane con Draka Distribution dal 5 marzo, vincitore fra gli altri dell’European Film Award e del Goya come miglior lungometraggio d’animazione e dei premi della giuria e per la colonna sonora all’Annecy International Animated Film Festival.
Traendo ispirazione dell’omonima graphic novel di Fermín Solís, il film è anche il racconto di una grande amicizia, quella tra Buñuel e lo scultore, pittore e scrittore anarchico Ramon Acin, che per aiutare il regista (rimasto senza finanziatori dopo le polemiche per le sue opere surrealiste) produsse il documentario con soldi vinti alla lotteria. Acin morirà pochi anni dopo, nel 1936, durante la Guerra Civile Spagnola, fucilato dai fascisti, che riservarono lo stesso destino 17 giorni dopo anche alla moglie dello scultore. “Qui non si tratta di cambiare le leggi ma il modo di pensare della gente. Si tratta di cambiare il mondo senza che il mondo se ne renda conto”. E’ una delle idee in cui crede Buñuel e che porta avanti, non senza contraddizioni, anche quando decide di girare, dopo due opere di fiction, un documentario, di cui Simo’ mostra, con degli inserti, alcune delle immagini più potenti. Riprendendo l’idea di Eli Lotar (che fu direttore della fotografia del film, lungo circa 30 minuti) il regista decide di mostrare al mondo la povertà di Las Hurdes, una delle regioni più arretrate della Spagna: zona montagnosa contadina, a circa 100 km da Salamanca, composta da vari villaggi (i tetti bassi e ravvicinati delle case/stalle ricordavano la tessitura di un labirinto e il carapace di una tartaruga, da qui il titolo) senza luce e strade. Un’area devastata, viste le poverissime condizioni di vita da un’alta mortalità infantile, e malattie come malaria, dissenteria e molti casi di nanismo.
L’artista Buñuel si trova a riflettere sul suo passato, dalla severità del padre al contrasto con l’ingombrante figura di Dalì (che rifiutò di produrgli il documentario, perché una zingara gli aveva detto di non prestare soldi agli amici) e a fare scelte di rimessa in scena della realtà, per far arrivare, nel modo più diretto e duro possibile, il racconto dal vero. Simo’ ha costruito il suo ritratto del regista, anche grazie alle conversazioni con il nipote del cineasta, Luis. “La cosa più importante che ho compreso nella mia ricerca su Buñuel era l’onestà e verità che infondeva nei suoi film e nelle sue storie – ha spiegato Simo’ a No Film School -. Era onesto nel modo di parlare nel modo in cui vedeva le cose. Tutto questo lo percepisci dalle sue opere: voleva che il pubblico pensasse, si ponesse domande”. Intanto Simo’, che viene da una lunga esperienza internazionale (è stato, fra gli autori delle sequenze animate e di effetti speciali, fra gli altri, della versione ‘ibrida’ di “The Jungle Book” e di “Pirati dei Caraibi: La vendetta di Salazar”), grazie al successo di “Buñuel nel Labirinto delle Tartarughe” ha avuto il via per un altro grande progetto animato, stavolta in cgi, prodotto da Spagna e Cina: Dragonkeeper tratto dai racconti fantasy di Carole Wilkinson: protagonista una bimba schiava, Peng, che scopre i suoi grandi poteri quando parte in missione per salvare dall’estinzione i draghi.