Se un grande festival è anche un osservatorio su ciò che cambia nel mondo a livello di tendenze artistiche ma anche di flussi economici e modi di vita, nonché un’anteprima di ciò che potrà accadere, allora non c’è dubbio che con 5 film nelle varie sezioni, la Cina è un paese sotto la lente d’ingrandimento. Si sa infatti che il cinema anticipa le tendenze e quasi inconsciamente ne capta i fermenti segreti ed è indubitabile che la Cina di oggi (anzi, le diverse Cine che anche qui ostentano le proprie differenze) registra una trasformazione profonda. Primo sintomo: il giallo, il crimine, la faccia nascosta dell’equilibro del paese emerge con sempre maggiore frequenza e ben due titoli della selezione, attingono al genere. Si tratta di un capovolgimento epocale, appena intuito qualche anno fa alla Berlinale (quando vinse nel 2014 “Fuochi d’artificio in pieno giorno”) ma che ora sta diventando un autentico fenomeno. Nel “Lago delle oche selvatiche” di Diao Yinan (concorso) il protagonista è addirittura un capo gang in cerca di redenzione mentre la donna del suo cuore è una prostituta. Per la censura cinese (che ha dato il via libera al film) si tratta di superare due tabù in una volta sola: riconoscere l’esistenza della malavita e dichiarare che la prostituzione è soggetta a ferree leggi che controllano la libertà delle donne. In “L’estate di Changsha” (Un certain regard) l’esordiente Zu Feng segue invece il poliziotto Bin che, nel corso di un’inchiesta, si imbatte in una misteriosa dottoressa il cui passato rischia di sconvolgergli la vita. Ovviamente entrambi i racconti hanno un passo diverso dal poliziesco tipico dell’Occidente e in qualche misura appaiono pretesti per narrare storie d’amore con un punto di vista diverso e meno rassicurante. Ma è proprio questo slittamento di prospettiva a mostrare il cambiamento in atto: da un modello di società perfettamente regolato, si passa al territorio dell’incertezza e del dubbio. E quando il dubbio comincia a lavorare la psiche delle persone, nulla sarà come prima anche nella loro vita quotidiana. Il secondo elemento degno di nota sta nel sottile lavoro di promozione della Cina e della sua cultura che il cinema riesce a garantire. Oggi si riassume nel dialogo/confessione della star Zhang Ziyi (“La tigre e il dragone”) chiamata nel ristretto club delle “lezioni di cinema”. Da noi è certo meno popolare di personaggi come Nicolas Winding Refn o Alain Delon che l’hanno preceduta ma arriva con quell’aura da divina (nonostante la piccola statura e i gesti misurati) che si percepisce da vicino e che sfolgora sullo schermo. Nel ripercorrere la carriera, cominciata giovanissima dopo la dura scuola di danza a cui avrebbe voluto donarsi anima e corpo, l’attrice che rivaleggia con Gong Li quanto a contratti internazionali e che oggi è di casa sia a Hollywood che a Pechino, ha molta cura di mettere in primo piano il modo di vita cinese, la forza delle tradizioni, i valori morali con cui si cresce. Passa poi ad anticipare i suoi nuovi lavori che per due volte la vedranno rivaleggiare con “Godzilla” di Michael Dougherty (che ha diretto il primo e scritto il secondo) e poi con una super produzione cinese girata sull’Everest, “The Climbers” di Daniel Lee in cui fa coppia con il divo asiatico per eccellenza, l’ormai veterano Jackie Chan. Intorno a questi elementi di novità, le altre produzioni sono in una linea più tradizionale e mettono in scena la Cina agricola (nel caso di “la casa nelle montagne di Fuchun” della Semaine de la Critique) o il teatro tradizionale nel bellissimo “To live To Sing” di Johnny Ma (Quinzaine des Réalisateurs) che contiene una sottile critica sociale al disperdersi delle radici e della tradizione, ma si esalta soprattutto nella rappresentazione di una compagnia d’artisti che ha perso la sua casa, il teatro in cui da sempre si perpetua un modello d’opera cantata. C’è infine l’altra Cina del taiwanese Mizi Z che con “Nina Wu” (Un certain Regard) spezza una lancia a favore della donna in clima da #Metoo ma contiene la sua metafora tutta dentro il mondo del cinema (Nina è un’attrice sfruttata e una donna non considerata) e quindi resta in qualche modo prigioniero del suo esercizio di stile. Manca all’appello – e anche questo è un segnale della normalizzazione in atto in Cina, ma anche dei fermenti sotterranei che stanno sotto la superficie – il cinema fiammeggiante di Hong Kong. Sarà per un’altra volta?
Cannes al festival una Cina mai vista
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By Redazione
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