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Mario Sesti con ‘Mondo sexy’ alle Giornate degli Autori

A cosa servono i festival del cinema? La domanda torna stancamente e a intervalli regolari, in genere coincidenti con i grandi appuntamenti internazionali.

Servono forse a far provare alla tribù di vip e cinefili il brivido dell’anteprima dell’ennesimo film con/di/per Brad Pitt? A ripetere, a favore di fotografi, riti frusti ed encomi ed urletti per una comunità di soliti noti (i registi ‘da Cannes’, i i registi ‘da Venezia’, i registi ‘da Berlino’) dove ogni tanto si deve scovare l’intruso, cioè la novità benedetta e sempre più rara? Certo che no.

  Ancora solo tre anni fa (gli intervalli sono regolarissimi…), Thierry Fremaux, cui venne posta la fatal questione, rispondeva: “Le kermesse funzionano solo se sono in grado di trasformarsi da vetrina a officina di sperimentazione”. Da sempre, oltre allo scambio e al mercato (dove c’è), la logica che tiene in piedi queste macchine complesse e un po’ sopravvalutate è quella della finestra aperta su un mondo che altrimenti non vedremmo mai: né nelle nostre sale, né tantomeno nei tg televisivi. Che sia lontano (la cinematografia asiatica o quella di paesi come la Palestina o l’Africa) o vicino (almeno culturalmente: la scoperta di Quentin Tarantino a Cannes) o anche vicinissimo, come il nostro stesso passato.

  Che a volte può risultare incredibilmente sorprendente, misterioso, esotico. E’ il caso di quell’Italia intravvista tra le pieghe di improbabili documentari, tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60, dunque in pieno boom, che Mario Sesti riporta alla luce con Mondo Sexy, presentato alle Giornate degli Autori, la sezione indipendente della mostra del cinema di Venezia, martedì 3 settembre. Dopo aver scandagliato sequenze di Fellini, segreti di Pasolini, voci e volti dell’Italia di Berlinguer, oltre al mondo di Bernardo Bertolucci e Lucio Dalla, Sesti ci porta (anzi ci avvolge) dentro un fenomeno piccolo e di breve durata, forse sottovalutato ma potentemente rivelatore. Accompagnati dalla musica di Federico Badaloni e dalla voce dello stesso Sesti (entrambi piuttosto ipnotiche) veniamo letteralmente calati in un sottosuolo di immagini al tempo stesso ingenue e sontuose, provocatorie e infantili, occhiute e lascive.

  Perché il cinema (e i produttori) hanno sempre funzionato allo stesso modo: per l’imprevisto successo di un documentario di Alessandro Blasetti, Europa di notte, cominciarono ad essere prodotti, più o meno velocemente, più o meno accuratamente, documentari sulla vita notturna ai quattro angoli del mondo (anche se a volte uno di questi angoli era ricostruito dietro casa). L’oggetto era sempre lo stesso: lo spogliarello di donne (molto più raramente di uomini) dai corpi più diversi (oggi sarebbe impossibile trovare tanta pluralità estetica), ripreso e ripetuto in forme più o meno simili con andamento e ritmo ossessivo e con l’obiettivo di soddisfare (soprattutto dal punto di vista della quantità) lo sguardo affamato del maschio boomer italiano. Magari ammiccando al fatto che era uno spettacolo gradito a entrambi i componenti della coppia (in alcune sequenze vediamo marito e moglie sorridersi in un locale più o meno elegante mentre una ballerina si contorce a un palmo da loro) e con una spruzzata di ingenuo esotismo razzista (solo le donne di colore possono mostrare i capezzoli – rigorosamente coperti per le donne bianche – forse perché considerato ‘naturale’ per la loro cultura).

  Un’Italia colta (di sorpresa?) in una sofferta crisi di crescita ma, allora come per altri versi ancora oggi, timorosa e prigioniera di stereotipi, vizi, inclinazioni sessiste da umanità pre-#meetoo (il documentario che viene lanciato senza mezzi termini come adatto a ‘uomini con mogli racchie e per adolescenti foruncolose’: quanti decenni sono che non sentivamo pronunciare la parola ‘racchia’?). E’ un’Italia pre-Malizia e molto pre-Banfi (quello vero, non Nonno Libero), ripresa un momento prima che inizi una autentica rivoluzione e liberazione del costume, costata fatica e consapevolezza e non ancora terminata. Un’Italia che, una volta tanto, possiamo dire di esserci lasciati alle spalle. O no?

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