L’America è stata la patria finora del 67% dei serial killer documentati nel mondo. Fra questi, uno dei più emblematici, manipolatori e mediatici è stato Ted Bundy, autore di oltre 30 omicidi di giovani donne (c’è chi pensa ne abbia commessi addirittura un centinaio), e di altre decine di stupri e violenze, giustiziato a 42 anni nel 1989 sulla sedia elettrica. Affascinante quanto spietato e sociopatico, Bundy è stato più volte al centro di film e fiction (a dargli volto, fra gli altri, Mark Harmon, Billy Campbell, Cary Elwes). Ora trova un sorprendente e carismatico interprete nell’ex enfant prodige di Casa Disney, diventato un divo, Zac Efron, in Ted Bundy – Fascino criminale in sala dal 9 maggio con Notorious Pictures.
A dirigere il film è il documentarista specializzato in true crime Joe Berlinger, che quest’anno ha anche firmato una docuserie per Netflix sull’omicida seriale, Conversazioni con un killer: Il caso Bundy. Mentre la serie documentaria è costruita sui nastri delle conversazioni fatte da Bundy nel braccio della morte con due giornalisti (aveva finalmente ammesso alcuni dei suoi crimini, dopo essersi proclamato nei processi sempre innocente) il film racconta la storia principalmente dal punto di vista di Elizabeth ‘Liz’ Koepfer (interpretata da Lily Collins), mamma single fidanzata a Bundy fino alla sua prima condanna in Utah, a metà anni ’70. Berlinger, mantiene il suo rigore da documentarista, utilizzando centinaia di documenti, foto, filmati, registrazioni, verbali dei processi, come base per il racconto. Questo non ha evitato al film l’accusa di aver troppo spettacolarizzato e mitizzato (anche per la presenza di Efron) la personalità di Bundy: “Puntare l’attenzione sulla relazione di Bundy con Elizabeth (che raccontò il loro rapporto in un libro, ndr) è ciò che ha reso per me questo progetto interessante – ha spiegato il regista a Metro.us -. Volevo mostrare come un serial killer sia abile nell’ingannare, come possa farla franca così a lungo, come sia in grado di attirare le sue vittime portandole alla morte e come gli amici e le conoscenze intorno a lui possano non cogliere segnali o indizi. Dare al film la prospettiva di qualcuno che ha amato e ha avuto fiducia in Bundy fa emergere quella dinamica”.
Berlinger per gran parte del film non mostra le violenze di Bundy ma ne riflette quell’immagine di ‘bravo ragazzo’ che gli permetteva di attirare le ragazze in trappola, spesso aiutandosi, indossando finti gessi o legandosi il braccio al collo per sembrare più indifeso. Thomas Harris ne ha tratto ispirazione per Il silenzio degli innocenti, nel modo di attirare le vittime utilizzato da Buffalo Bill, e per l’aiuto fornito di Lecter a Clarice Starling. Anche Bundy infatti fornì in carcere alcuni dettagli utili per la cattura di un altro spietato omicida seriale, Il killer di Green River, Gary Ridgway. Efron, a colpi di sorrisi spiazzanti, sapiente alternanza di dolcezza e energia prorompente e dialettica pungente da avvocato mancato (il serial killer decise, per salvarsi dalla sedia elettrica, di difendersi da solo), rende credibile il fascino di Bundy, colto anche dai media: il suo processo finale in Florida, è stato il primo trasmesso in tv a livello nazionale. Liz, forse l’unica donna verso cui Bundy ha provato amore (anche se mentre è in prigione mette incinta e sposa una vecchia fiamma che credeva in lui) ci ha messo anni a liberarsi dalla sua ombra. “Volevo fare questo film per le vittime (ricordate sui titoli di coda, ndr) – ha spiegato a The Guardian Efron – Bundy è stato giustiziato ma solo dopo aver ucciso un numero imprecisato di donne che erano piene di potenziale, le cui storie non sono potute proseguire, e che non sono mai state raccontate. E’ disturbante come cultura essere qui ancora a guardare negli occhi di un killer, subire il fascino di un uomo brutale e senza valore”.