(ANSA) – ROMA, 14 FEB – Il 16 febbraio 1943 si consumò un
Grecia, nel villaggio di Domenikon, uno dei peggiori eccidi
compiuti dalle forze italiane di occupazione: almeno 140 civili
furono trucidati come (illegittima) rappresaglia per
l’uccisione, in una imboscata partigiana, di nove camicie nere:
dopo 78 anni nessuno ha mai pagato per quella strage, oggetto di
più inchieste, l’ultima delle quali archiviata recentemente, e i
familiari delle vittime continuano a chiedere “giustizia”.
“Queste persone non sono venute da sole, né in Grecia né nel
mio villaggio. Le ha mandate lo Stato italiano ed erano
rappresentanti dello Stato italiano”, ha scritto – parlando dei
soldati che hanno compiuto la strage – Stathis Psomiadis,
presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime di
Domenikon, in una lettera al magistrato Marco De Paolis che,
nonostante le indagini condotte, fu costretto a chiedere
l’archiviazione perché tutti i possibili imputati erano ormai
morti. E per questo chiese scusa. Psomiadis, pur ringraziando
per l’impegno profuso, ha lamentato che l’Italia non ha mai
assunto alcuna iniziativa per risarcire le vittime del massacro.
Più in generale – come sottolineano gli storici Filippo
Focardi e Lutz Klinkhammer nella prefazione al libro “Domenikon
1943. Quando ad ammazzare sono gli italiani” (Mursia), del
giornalista Vincenzo Sinapi – fin dal dopoguerra è stata stesa
una coltre di silenzio sui crimini compiuti dall’esercito
fascista nei territori occupati, dove vennero fatte “migliaia di
vittime innocenti per le quali non c’è mai stata giustizia”. A
differenza di quanto avvenuto in Francia e nella stessa
Germania, in Italia “un pubblico esame di coscienza sulle
proprie responsabilità (…) è stato finora frenato da vari
fattori, fra cui interessi politici e istituzionali restii a
riconoscere le malefatte del Paese, non ultimo per scongiurare
eventuali richieste di indennizzi da parte dei familiari delle
vittime dei crimini italiani”. Resta questa una “pagina rimossa
della storia del nostro Paese”, con la quale però “l’opinione
pubblica dovrebbe finalmente confrontarsi”. (ANSA).
Fonte Ansa.it