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Abdnon Pamich
“Disinteresse e tanta ignoranza. Alcuni dei mali di oggi, per me, sono questi. E l’antidoto è uno solo: la memoria, da conservare e promuovere. Perché quando si nascondono la storia e i fatti, con la scusa delle ideologie che oltretutto ci hanno rovinato, siamo messi male. L’unica cosa che ci salva, in certi casi è il ricordo, da tramandare di padre in figlio. Sempre”.
Parole di Abdon Pamich, marciatore pluri-medagliato, campione olimpico di Tokyo nel 1964, che in una chiacchierata con l’Agi, parla stavolta non tanto dei suoi successi e meriti sportivi ma piuttosto, della sua condizione di esule fiumano.
Pamich è l’atleta che ogni anno dà il via alla corsa del Ricordo che si tiene nel quartiere giuliano dalmata di Roma, anche se all’edizione 2019, per motivi personali, non potrà esserci. Medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokyo vinta meritatamente dopo il bronzo di Roma, “dove mi misero in condizioni di gareggiare male”, ricorda, dice che Fiume gli è rimasta nel cuore: “Fiume è la città della memoria. Per noi fiumani è così. È il ricordo. Era bellissima Fiume – spiega – una città cosmopolita. Si viveva bene, ungheresi, italiani, croati. Per me non c’erano difficoltà. Poi è venuta la guerra, il disastro e il nostro esodo. Avevo 13 anni quando sono andato via, facevo la vita di tutti gli studenti. Studiavo, nuotavo, andavo in barca, in montagna. Facevo lunghe camminate, anche di 12 ore. La Fiume di prima del ’43 era allegra, c’era tanta gente spiritosa, cantavano. Era una città aperta, perché sul mare. Si parlava ungherese, tedesco, croato e italiano ovviamente. Parlavamo anche il nostro dialetto, c’era un bel mix di culture. Gli Italiani erano la maggioranza ma non c’erano problemi di convivenza con gli altri. Soprattutto con gli ungheresi. L’Ungheria mandava la gente a Fiume, al mare. Loro sono molto legati alla città”.
E poi?
“Eh… poi le persecuzioni razziali, l’occupazione Jugoslava, i sovietici, e l’esodo…con tutto quel che ne è derivato – ricorda – ma non hanno pagato solo gli italiani, non solo noi. E ho perso anche amici ebrei nei campi di concentramento, ad Auschwitz per esempio. Nelle Foibe per fortuna no”.
E la vita da esule?
“Ho fatto un anno di campo di concentramento a Novara: uno squallore indicibile. Non avevamo da coprirci, faceva freddo e il telo, la copertaccia, era di cotone non parliamo del mangiare, un anno solo a lenticchie e riso. In quel campo ci sono stato con mio fratello, poi mi sono ricongiunto con mia madre e il resto della mia famiglia nei pressi Genova. E dopo ci siamo stabiliti in città”. A marciare, Pamich ha iniziato a 18 anni: “mio fratello già lo faceva. Al primo anno di medicina, ha conosciuto uno che praticava questo sport, e ha continuato a studiare. Io – aggiunge – ho iniziato per caso, andavo allo stadio per la corsa campestre e mi hanno detto: marcia anche tu. Ed è iniziata la carriera”.
Una rivincita per quello che ha subito?
“No, no. Dividiamo le cose. Quando marciavo nel ’52, ero contento perché sui giornali c’era scritto ‘vince il fiumano Pamich’, era soddisfazione quella! Ma tanto non si poteva parlare, nessuno credeva alle nostre vicende. Mio suocero era comunista, non mi chiedeva niente, forse pensava che fossi fascista ma io certo non avevo il carattere di un fascista, non sono un prepotente. Scherzo eh? Pero’ dicevano che eravate fascisti.. ‘Si diceva che eravamo fascisti, si, ma nessuno della mia famiglia si è mai iscritto. Anzi, i miei nonni hanno pure preso l’olio di ricino! E comunque, non c’eravamo certo noi di Fiume in piazza Venezia a Roma, quando Mussolini ha annunciato l’ingresso in guerra, a festeggiare.”
Torniamo alla vita al campo profughi.
“Era terribile, mi si chiede un paragone con i centri per l’immigrazione di oggi. È una forzatura. Lascerei perdere. A parte il fatto che ora, credo che i letti li abbiano ed è un po’ meglio rispetto a noi che dormivano nei sacchi con dentro i gambi del granoturco per materasso. È vero però che l’Italia era più povera, ma c’era anche una coscienza sporca, si cercava di nascondere un fatto. A Novara, le mamme, quando passavo per strada mentre andavo a scuola, dicevano ai figli: se non stai bravo ti faccio mangiare dal profugo e dai, su…ma che livello era quello…”
Abdon Pamich (Wikipedia Commons)
C’è stata una guerra con vinti e vincitori.
“Ce ne sono state due, ma è mai possibile che l’italia che vinca o perda, paga sempre? Nel 1918, guarda caso, abbiamo pagato per tenere Fiume si è fatto l’inferno. Poi con la seconda, quanto abbiamo pagato…”.
Però oggi, della questione Giuliano-Dalmata se ne comincia a parlare.
“Eh, a forza delle lotte che abbiamo fatto! Ora c’è finalmente la voglia di fare luce. Anche la Croazia sta facendo il suo. Abbiamo combattuto molto per fare in modo che si parli della nostra storia. Non voglio certo che Fiume torni all’Italia, sarebbe un’utopia, ma che almeno si riconosca quello che è stato. Uno storiografo su una nota rivista ha scritto che il nome Fiume lo ha inventato Mussolini. Macché, ci sono documenti degli ungheresi, di tantissimi anni prima che dicono che la città si chiamava così perché c’era un fiume che segnava il confine”.
C’e’ una strumentalizzazione politica della questione giuliano-dalmata?
“La verità e’ che c’è tanta ignoranza. Ci ha difeso solo l’Msi e questo, nell’immaginario comune, suggellerebbe il fatto che siamo fascisti, mah! Però ora ci sono persone che si avvicinano alla conoscenza della nostra storia, come Violante, che è socio onorario degli studi Fiumani. Ha capito e questo, per esempio, è significativo. Poi purtroppo, c’è ancora chi nasconde le vicende o fa politica negazionista, come Anpi. È malafede pura. In generale, posso dire che anche quando gli storici falsano la verità, è finita. Tutti dovrebbero documentarsi o almeno starsi zitti se proprio non vogliono far sapere”.
Lei comunque fa la sua parte, gira nelle scuole per portare la sua testimonianza.
“Sì, faccio il testimone in molti istituti scolastici, Quando posso. In genere mi ascoltano anche perché parlo poco per non stancare i ragazzi e non distogliere la loro attenzione. Però devo dire che vedo ancora tanto disinteresse. Oggi ci rimane il valore del ricordo, per me, di Fiume. Fiume è la mia città della memoria e il mio compito, così come quello delle generazioni future è quello di tutelarla e fare in modo che non finisca tutto con noi anziani. Noi che stiamo scomparendo, cerchiamo di spingere gli altri a ricordare, anche con la comunità degli italiani a Fiume. Su questo però devono impegnarsi le giovani generazioni anche in tutta Italia. In Istria ci sono comunità italiane che si danno tanto da fare, speriamo che questo aiuti mantenere le nostre tradizioni. Io ogni tanto torno a Fiume, ci sono stato anche a dicembre per presentare il mio libro. Ci sono giovani, nelle scuole italiane che non sanno nemmeno dove si trova la città dove sono nato, e se penso che si vogliono ridurre le ore di studio della geografia a scuola, figurarsi se si può pensare ad incrementare quelle dello Sport al quale ho dedicato la vita! Tutto questo mi preoccupa. Perché mi allarma l’ignoranza capillare. Le persone non vogliono sapere, non sono interessate. Leggetevi ‘Prigionieri del silenzio’, cercate di essere curiosi. Occorre invitare gli insegnanti a documentarsi. Io ho studiato storia e non si parlava della vicenda Giuliano-Dalmata. Se sono pessimista, alla mia età? No, sono realista: quando la storia è nascosta nei testi a disposizione delle scuole, vuol dire che siamo messi male. Ecco perché mi preoccupo che l’impegno del ricordo, soprattutto fra le giovani generazioni, venga mantenuto”.
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