La testimonianza di un alpino durante la campagna di Russia, costata la vita a migliaia di connazionali, è la miglior risposta a chi insulta la storia delle penne nere, da sempre simbolo di pace e orgoglio della nostra terra
Trieste – Nel giugno del 1941 cominciò una delle più tragiche avventure belliche dell’esercito italiano. Mussolini visti gli iniziali, travolgenti successi dei tedeschi sul fronte russo, volle parteciparvi, gettando in questa folle impresa più di 200 mila uomini.
Gli alpini destarono l’ammirazione dei tedeschi e dei sovietici per il loro coraggio e la loro resistenza, capaci di imprese eroiche come il terribile assalto che li vide spezzare, disperati, poco armati e in ritirata, l’assedio dei russi a Nikolajewka. La loro umanità, non è solo leggenda.
Ecco qui di seguito la testimonianza dell’alpino Nino Di Tommaso, di Sulmona, maniscalco della 143esima compagnia del Battaglione Aquila della Divisione Julia, reduce della campagna di Russia, intervistato dall’autore nel 1975.
Incontrai Tatiana nei pressi di Nowo Markowa dove si era accampata la mia compagnia. Indossava il pesante cappotto imbottito delle contadine russe e appariva un po’ goffa nei movimenti. Ricordo che l’aiutai a superare una profonda buca che sbarrava la strada e che lei mi ringraziò con un dolce sorriso. Aveva grandi occhi verdi e i capelli biondi raccolti dentro un fazzoletto bianco. Era giovane e bella.
L’accompagnai fino alla porta della sua isba e lei mi invitò a entrare. Mi indicò un vecchio grammofono appoggiato sopra un tavolino di legno e con un gesto mi fece capire che non funzionava. Io ancora oggi riesco ad aggiustare un po’ di tutto. Non per niente sono l’idraulico del mio paese. Così mi avvidi subito che si era rotta la corda del volano. Nulla di grave, ma era necessario trovare un’altra corda di quella stessa misura. Allora le dissi che sarei ritornato il giorno dopo con la corda nuova.
Mentre ero intento a smontare il grammofono, lei si era tolta il cappotto e aveva liberato i capelli dal fazzoletto bianco. Disse che si chiamava Tatiana e a me sembrò, all’improvviso, la donna più bella del mondo. lo risposi che mi chiamavo Nino e lei mi offrì un bicchiere di grappa. Il giorno dopo ritornai con la corda e aggiustai il suo grammofono. Ricordo che ballammo ridendo una mazurka e una polka.
In quel momento la guerra mi sembrò lontana, quasi un avvenimento irreale.
Mentre il fuoco ardeva nella grande stufa di terracotta ebbi la tiepida illusione di essere ritornato a casa. Le diedi un bacio sulla guancia. Lei si ritrasse, ma poi me lo restituì con spontaneità. Ci vedemmo spesso, quasi ogni giorno, per un mese. Aveva la pelle bianca, come il latte. Insomma fummo felici. Voglio dire completamente felici.
Il pomeriggio del 16 dicembre mentre stavo ferrando un mulo vennero a dirmi che bisognava partire subito. Allora corsi da lei per avvertirla e per salutarla. Quando Tatiana mi vide arrivare trafelato a casa sua capì immediatamente quello che stava per accadere. Mi pregò di restare; mi avrebbe nascosto nell’isba di sua madre e ai russi, se fossero venuti, avrebbe raccontato che ero un amico, un bravo soldato italiano. Avevo il cuore a pezzi, ma dovetti lasciarla in fretta, prima che scendesse la sera. Non l’ho più rivista, chissà dove sarà adesso. Ma sono sicuro che le è rimasto quel sorriso triste e meraviglioso. Ci ho pensato spesso e a lungo. In guerra si invecchia in fretta, anche da un giorno all’altro. E quello era il sorriso della mia giovinezza che se ne andava per sempre.