Addio a Carlo Vanzina, il regista romano scomparso quest’oggi, che di sè (e del fratello Enrico) diceva: “In una cinematografia seria come quella americana, noi Vanzina saremmo venerati come Spielberg. Qui dobbiamo vergognarci”
Se n’è andato quest’oggi Carlo Vanzina e a darne notizia è la famiglia, la moglie Lisa e il fratello Enrico, coautore di molte delle sue pellicole. “Nella sua amata Roma, dov’era nato, ancora troppo giovane e nel pieno della maturità intellettuale, dopo una lotta lucida e coraggiosa contro la malattia – si legge nella nota della famiglia – ci ha lasciati il grande regista Carlo Vanzina amato da milioni di spettatori ai quali, con i suoi film, ha regalato allegria, umorismo e uno sguardo affettuoso per capire il nostro Paese”
Un uomo di cinema, nato sotto la stella del grande schermo, quella del regista Steno (Stefano Vanzina), suo padre biologico ma anche padre fondatore del cinema italiano del dopoguerra, autore di film entrati nella storia della commedia nazionale grazie a interpreti del calibro di Totò, Alberto Sordi, Aldo Fabrizi. Un figlio d’arte, dunque, che lungi dal soffrire una paternità ingombrante, ne ha appreso le qualità più preziose, diventando, alla pari del padre, uno dei registi più prolifici del cinema italiano.
Circa 60 lungometraggi in poco più di 40 anni di carriera, questo il contributo di Carlo, che ha raccontato la società italiana dagli anni Settanta fino al 2017 (data della sua ultima fatica, Caccia al tesoro), scoprendo nuovi istrioni e maschere (da Abatantuono alla coppia formata da Christian De Sica – che esordì con lui in Sapore di Mare – e Massimo Boldi) e realizzando l’evoluzione del genere della commedia all’italiana, ovvero il “cinepattone”, un marchio di fabbrica indissolubilmente legato ai Vanzina, nel bene e nel male.
Lo stesso regista romano affermò in un’intervista: “In una cinematografia seria come quella americana, noi Vanzina saremmo venerati come Spielberg. Qui dobbiamo vergognarci”. A sottolineare la difficoltà di accettare il verdetto della critica, sempre inclemente nei confronti della pur vastissima produzione dei Vanzina.
La storia del cinema, d’altra parte, è piena di autori bistrattati e incompresi, qualche volta rivalutati solo a posteriori. Alfred Hitchcock, altro prolifico del grande schermo, fu riconosciuto come “maestro del brivido” solo verso la fine degli anni Cinquanta, dopo quasi trent’anni di carriera e dopo essere approdato a Hollywood da almeno venti: ci vollero i critici francesi della Nouvelle Vague, Rohmer, Chabrol e soprattutto François Truffaut (autore di un saggio fondamentale), per studiare l’opera del regista inglese, comprenderne la grandezza e rivalutarla agli occhi della critica.
Ci teniamo a precisarlo: non sarà questo il caso di Carlo Vanzina. E lo stesso paragone con Spielberg è azzardato: quasi coetanei (l’americano è di cinque anni più vecchio), l’autore di E.T. ha dalla sua quattro Oscar e una popolarità mondiale che il romano non può certamente vantare. Eppure, parafrasando proprio Truffaut, “un film non deve essere semplicemente bello, deve funzionare”. E in tal senso, il lavoro di Carlo Vanzina, sulla scia di quanto lasciato in eredità dal padre, ha funzionato bene, anzi nel migliore dei modi, producendo film con serialità industriale, riempiendo le sale ogni Natale, mantenendo milioni di italiani legati alla tradizione e al fascino del cinema. I grandi incassi al botteghino, il frutto più grande del suo lavoro, sono serviti proprio a questo, a salvaguardare il valore e l’esperienza del vero grande schermo, nell’epoca dello streaming pirata e dei film rubati dal piccolo schermo di casa.