Yoko Aziz / Agf
Gino Strada
Emergency compie 25 anni. Un quarto di secolo in cui ha costruito ospedali e posti di soccorso in diciotto Paesi, tra i più dimenticati, devastati, poveri e violenti. Gino Strada ha raccontato la sua avventura in una lunga intervista al Corriere. Ecco i passaggi salienti.
Gli inizi
“A casa mia a Milano, fino a ore tarde. Carlo Garbagnati, una ventina d’amici, non tanti medici (erano scettici). E la mia adorata Teresa, che sarebbe diventata insostituibile. Ci fu una cena al Tempio d’Oro, in viale Monza. Raccogliemmo 12 milioni di lire, ma volevamo cominciare dal genocidio in Ruanda e non bastavano. Ne servivano 250. Io dissi: beh, ragazzi, firmiamo 10 milioni di cambiali a testa… Per fortuna venni invitato da Costanzo e, puf, la tv è questa cosa qui: in un paio di mesi, arrivarono 850 milioni. Gente che mi suonava al campanello di casa, ricordo una busta con dentro duemila lire spillate”.
“Il nome Lo scelsi io. Era l’aggettivo all’inizio d’Emergency-Life Support for Civilian War Victims. Troppo lungo: l’aggettivo diventò sostantivo”.
La lite con la Croce Rossa
“La Croce Rossa Italiana non esiste. Ma della Croce rossa di Ginevra ho gran stima. Avevo girato per loro, dall’Etiopia al Perù. Solo che a un certo punto s’erano disimpegnati dalla chirurgia di guerra. Che è difficile, costosa, rischiosa”.
Le Ong nel Mediterraneo
“Anche noi avevamo una nave per salvare i migranti, ma costava troppo: 150 mila euro al mese. È verosimile che certi meccanismi lascino spazio a comportamenti illegali”. “Han creato sfiducia nella gente. Dal 2011 abbiamo raddoppiato il budget, ma i progetti sono tanti. Un ospedale è un debito continuo, ogni anno i ricoveri aumentano del 30%. In Afghanistan, il sistema sanitario siamo noi”.
Il caso indimenticabile
“Un ragazzino, Soran, operato in Iraq. Aveva una gamba amputata da una mina. Qualche anno fa è venuto a trovarmi. Fa l’avvocato”.
Il momento più difficile
“Quando rapirono i nostri in Afghanistan e in Sudan. Anche nel caso Mastrogiacomo rischiai. Mi chiedevo: ha senso mediare? Sì, perché c’era un uomo che rischiava più di me”.
Posti in cui non si va
“I libici sono tosti, chiudemmo perché non arrivavano feriti di guerra, solo delinquenti locali. E ci pigliavano a sassate. Coi palestinesi ci ho provato, un ospedale a Ramallah. Andai dal ministro. Mi disse: “Ma voi avete 5 milioni da spendere? Sa, un posto letto vale 100mila dollari”. Arrivederci… Ho sempre pensato che una parte d’aiuti alla Palestina finisca altrove”.
“Il posto peggiore è la Somalia. Ci ho provato per dieci anni: con gli Shabaab non si parla. A un certo punto, devi rassegnarti”.
I dittatori
“Se un regime è oppressivo, la gente sta male. E noi ci andiamo. Quelli che noi chiamiamo dittatori, in Africa sono presidenti. E loro come dovrebbero chiamare i nostri “presidenti” Orbàn o Erdogan?”.
Gli amici
“De André, Eco, Chomsky. Adesso, Renzo Piano. Quando morì Teresa, mi scrisse una lettera splendida. Gli telefonai a Parigi per ringraziarlo. Ci siamo chiamati per quattro anni senza vederci. Amicissimi, ma non sapevo nemmeno che faccia avesse”.
Dio
“Non ne sento alcun bisogno. Penso che il significato delle cose stia nelle cose stesse, non al di fuori o al di sopra. Questo non m’ha precluso l’amicizia con don Gallo, Alex Zanotelli, don Ciotti, a parte qualche bestemmia che ogni tanto mi scappava. Mi piacerebbe incontrare Papa Bergoglio, parlare dell’abolizione della guerra. Una volta era un tema, oggi è dimenticato”.
La neutralità
“Nessuno può essere neutrale. Non puoi esserlo, su un treno in corsa. Come fai a esserlo in Iraq? Però non siamo neanche di sinistra: scegliamo la vita, la giustizia, l’uguaglianza”.
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