Emilio Alessandrini, ucciso dal gruppo terroristico ‘Prima Linea’ quarant’anni fa, era un giovane uomo che amava cantare e ridere, un magistrato con la porta sempre aperta che, sul bancone di legno del pubblico ministero di un’aula del Tribunale di Milano, aveva fatto incidere tre parole: ‘Umiltà nel giudizio’. Il ritratto pubblico e privato che fa all’Agi Carmen Manfredda, magistrato in pensione e attuale presidente del Comitato Antimafia del Comune di Milano, parte da un’immagine di spensieratezza:
“È come se fosse andato via ieri”
“Con la sua Renault arancio, quella sulla quale è stato poi assassinato, tornavamo da San Vittore dopo gli interrogatori. Eravamo io, lui e il giudice Luigi Fiasconaro. Cantavamo a squarciagola, Emilio conosceva tutte le parole a memoria delle canzoni di quegli anni. Ogni volta che sento ‘Azzurro’, una che ci piaceva molto assieme a quelle di Tenco, mi sciolgo in lacrime ovunque mi trovi”. Piange e ride anche ora Carmen Manfredda, che aveva 29 anni quando, nel 1974, imparò il mestiere da tirocinante e molto altro a fianco di quel magistrato “di un’intelligenza e preparazione incredibile e straordinaria umanità, difficile pensare che un’altra creatura simile sia mai venuta sulla terra”.
“Sono 40 anni, ma è come se fosse andato via ieri – si commuove l’autrice di tante indagini su omicidi e sequestri di persona, a sua volta minacciata dalle Br negli ‘anni di piombo’ – quando ho bisogno di un parere o di un conforto, gli parlo ancora come se fosse qua”. Anni di lavoro senza soste e di un’amicizia intensa che univa la giovane donna ai due magistrati che scoprirono la ‘pista nera’ su piazza Fontana. Si mischiano insegnamenti di lavoro a squarci di gioventù allegra, “come quando andavamo al cinema, io, lui e Gigi (Fiasconaro, ndr)”.
“Un’attenzione smisurata per gli umili”
“Una volta mi ero fatta abbindolare da un falso pentito, Emilio l’aveva capito benissimo, era uno che vedeva molto lontano e mi mise in guardia. Aveva un rapporto particolarissimo coi testimoni e gli imputati, lo adoravano tutti, teneva la porta sempre aperta. Mi ricordo che c’era una sorta di pazzo che veniva sempre a trovarlo e lui lo lo riceveva sempre. Io gli dicevo: ‘Quanta pazienza hai, a sopportarlo’ e lui rispondeva, ridendo: “Mi aiuta a concentrare il lavoro’. Mostrava un’attenzione smisurata per gli umili. A Natale, mi portava a salutare e a portare il panettone agli impiegati del centralino, che spesso erano persone con disabilità. Quando venne ucciso, un detenuto – che era anche padre di un terrorista – mi scrisse una lettera stupenda dal carcere ricordando il senso della giustizia e l’equilibrio che aveva come giudice. E una testimone di un suo processo, nobile di nascita, mi portava sempre delle orchidee da mettergli sulla tomba”.
Mollava il lavoro solo per un’antesignana delle ‘serie’ attuali: “Alle ore 18 sospendeva momentaneamente il suo impegno e andava a casa. Lo guardavo in maniera interrogativa perché avevamo sempre molto lavoro da fare e lui mi spiegava che andava a vedere in televisione ‘Furia cavallo del west’ col figlio di nove anni, Marco”. Paura non ne aveva, o almeno non la manifestava: “Pochi giorni prima di morire a 36 anni – rievoca Manfredda – mi chiese di firmare delle perquisizioni nell’ambito di un’inchiesta sul terrorismo. Non voleva firmare lui per una questione di opportunità dal momento che era coinvolto un insegnante della scuola di suo figlio, che lui conosceva. Benedico il giorno in cui le ho firmate, o avrei avuto poi dei sensi di colpa il giorno che l’hanno ammazzato. Per molto tempo camminavo per strada e mi chiedevo perché fosse accaduto, non me ne facevo una ragione. Col suo omicidio, l’umanità è stata privata di una ricchezza incredibile, ma i suoi insegnamenti umani e professionali continuano a vivere in tutti noi”.
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