Miguel SCHINCARIOL / AFP
Cesare Battisti
C’è un pezzo di storia degli anni più cupi d’Italia nei verbali che Cesare Battisti detta dal carcere di Oristano, dove è rinchiuso per scontare l’ergastolo dal 14 gennaio scorso, dopo la cattura in Bolivia che ha interrotto 37 anni di latitanza. È stato l’ex terrorista dei Pac (Proletari Armati Comunisti) a convocare nella sua cella il pubblico ministero Alberto Nobili, capo dell’antiterrorismo milanese, e il suo avvocato Davide Steccanella per fare “chiarezza” sulla stagione della lotta armata che l’ha visto protagonista.
In nove ore tra sabato e domenica, per la prima volta ammette “quattro omicidi, tre ferimenti e una marea di rapine per autofinanziamento” già riconosciuti dalla sentenze definitive, chiede scusa “per il dolore arrecato ai familiari delle vittime” e segna una linea importante nella sua vicenda umana, dando ragione ai tanti ‘compagni’ che fecero una scelta diversa dalla sua:
“La lotta armata ha impedito lo sviluppo della rivoluzione nata nel 1968 che avrebbe portato il Paese al progresso culturale, sociale e politico”.
“Non è una confessione e nemmeno un pentimento, le interpretazioni psicologiche non ci appartengono”, avverte il procuratore Francesco Greco. Nobili si spinge più in là, definendolo un “atto liberatorio, una scelta di campo di fronte a un passato che non ha rinnegato ma da cui adesso ha preso le distanze” e anche “una resa delle armi rispetto alla magistratura italiana che ha debellato il terrorismo sempre coi codici alla mano”. Nel confronto col magistrato, a cui ha partecipato anche Cristina Villa, la funzionaria della Digos che ha lavorato alla sua cattura, Battisti ha argomentato che “quella fu una guerra giusta all’epoca, ma ora la considero una follia”.
Nobili, che coordina anche l’inchiesta sulle presunte coperture durante la latitanza, ha precisato che l’ex terrorista “non ha chiamato in causa altre persone, nè ha voluto collaborare”, ma ha solo voluto “fare chiarezza e dare un giudizio critico sul passato”. Ha fatto dei nomi solo al fine di ricostruire il suo percorso, come quelli di Nicola Pellecchia e Arturo Cavallina, conosciuti in carcere e coi quali decise di fondare i Pac raccogliendo “fuoriusciti delle Br e dei Nap”, “gruppi terroristici che avevano una struttura verticistica”. I Pac, ha puntualizzato, “avevano una struttura orizzontale, senza capo, l’unica che consentiva di prendere decisioni condivise ed era più confacente a una lotta democratica”.
Del periodo trascorso tra Messico, Francia, Brasile e Bolivia, Battisti ha evidenziato che non ha commesso nessun reato, dedicandosi alle sue attività di scrittore e traduttore, che gli hanno portato tante simpatie dagli intellettuali a cui ha ammesso di avere detto “bugie” a cui loro hanno creduto in una chiave ideologica.
E ha specificato di non avere goduto in questi Paesi “di protezioni oblique”, riferimento probabile ai servizi segreti. Sul futuro, sa che difficilmente le sue scuse saranno accolte “per l’immagine che ho dato di di me assolutamente negativa col mio atteggiamento beffardo” e, stando a quanto riferito dall’avvocato Steccanella, le sue parole non avevano “finalità diverse” rispetto a quella di chiarire i fatti.
In una futura concessione dei benefici penitenziari, è chiaro però che un peso ce l’avranno, in attesa che la Corte d’Assise di Milano stabilisca se gli va applicata la pena dell’ergastolo, come chiesto dalla Procura Generale, oppure i 30 anni come invocato dal suo legale in base all’accordo di estradizione tra Italia e Brasile. Nel frattempo, l’avvocato Steccanella, tra i massimi esperti italiani sul tema, potrà aggiornare la sua monumentale opera ‘Gli anni della lotta armata’ con le dichiarazioni del suo assistito.
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