La solidarietà, la condivisione, la responsabilità collettiva a tutela dei più fragili: ogni parola pronunciata in questi giorni dalla politica, dalla scienza, dai media si infrange davanti alle immagini di guerra delle stazioni ferroviarie e delle piazzole d’arrivo dei pullman dal Nord circondate dalle auto delle forze dell’ordine e presidiate dalle ambulanze.
L’avventura collettiva del coronavirus si è trasformata all’improvviso in storia crudele, storia di identificazione sui treni, di rivolta nelle carceri coi materassi bruciati e i detenuti sui tetti (a Salerno, a Napoli, a Modena, a Frosinone), di pezzi dello Stato che litigano pubblicamente contendendosi la responsabilità di decidere.
Non è un bello spettacolo, e non sono belle le espressioni che sostituiscono il vocabolario dell’altruismo e della comunanza che abbiamo utilizzato fino a ieri: «Respingeteli», «Rimandateli al Nord», «Fermateli», come se gli insegnanti, gli studenti, i precari tornati a casa in molti casi per necessità di sopravvivenza – come ti paghi un letto a Milano se non lavori? Perché dovresti pagartelo se non puoi studiare? – fossero i clandestini sui barconi dei “bei tempi” delle emergenze d’oltreconfine.
La storia crudele di cui abbiamo avuto ieri un assaggio proseguirà per un motivo semplice. Quando lo Stato è molto debole, quando perde la mano nell’uso del potere (o non l’ha mai avuta), è improbabile che riesca a gestire con successo l’imprevedibile e lo straordinario.
Nessuno aveva considerato, prima del decreto che ha spezzato a metà il Paese, molte delle conseguenze che si sarebbero prodotte, a cominciare dal controesodo degli expat dal settentrione e dalla necessità di dare indicazioni sulla loro gestione. Così si è attivato il fai-da-te dei governatori, con gli obblighi di identificazione e auto-isolamento imposto da quasi tutte le Regioni, e l’ovvia irritazione del Viminale che ieri ha dovuto ribadire la sua esclusiva autorità in materia.
Nessuno aveva pensato alla polveriera dei penitenziari, che con il blocco dei colloqui famigliari è ovviamente esplosa.
Nessuno aveva fatto i conti con la più ovvia delle considerazioni: una misura senza precedenti nella storia repubblicana – mai, neanche all’epoca di Chernobyl o del colera abbiamo visto qualcosa del genere – avrebbe provocato reazioni di panico senza precedenti tra la popolazione.
«Non stiamo andando in guerra», ha detto il presidente della Lombardia Attilio Fontana cercando di rassicurare la pubblica opinione. Ma la percezione del Paese è esattamente quella di un pericolo di tipo bellico. Le immagini dei fuggitivi dell’Intecity 797, giunti a Napoli Centrale dopo quindici ore di viaggio e due identificazioni di massa a Sessa Aurunca e Salerno, dicono tutto: col volto nascosto dalle mascherine o dalle sciarpe, sembrano più profughi che studenti, più reduci che insegnanti, operai, stagisti.
Così come hanno il sapore dell’assedio le foto di Piazza della Concordia, a Napoli, il capolinea dove approdano i Flixbus e le altre linee di pullman che collegano il Settentrione alla Campania, presidiati in forze dalla polizia per procedere alla registrazione dei passeggeri.
Come in ogni guerra, è arrivato il momento del «si salvi chi può», l’attimo impietoso che può tirare fuori il meglio delle persone – come accade negli ospedali, coi medici in servizio permanente – ma anche estrarne il peggio a dispetto di ogni monito pedagogico dell’autorità.
La diffidenza e lo scontro tra “sani” e “malati”, tra Nord e Sud ma anche tra benestanti che possono sfollare nelle case in campagna o al mare e poveracci costretti a restare in mondi potenzialmente infetti, sono le prossime, probabili evoluzioni di questa nuova fase della crisi: tenerne conto è un dovere, forse si è ancora in tempo per evitare di consegnare il Paese a nuove e irrimediabili lacerazioni.
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