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Il maglione che Gucci ha dovuto ritirare con tante scuse

Il maglione che Gucci ha dovuto ritirare con tante scuse

È bufera su Gucci che ha messo in vendita un maglione passamontagna nero che copre metà del viso con una grande bocca rosso fuoco disegnata attorno a un’apposita fessura per far vedere le labbra di chi lo indossa. Il capo di abbigliamento presentato con orgoglio dalla firma di alta moda è stato accolto da una valanga di critiche sui social, costringendo la firma italiana a ritirare il controverso maglione. Un modello davvero “offensivo” che ricorda la “blackface” indossata per 200 anni in America dagli attori bianchi per imitare in modo beffardo le persone nere in una rappresentazione razzista e stereotipata. 

Gucci ritira maglione e si scusa

Gucci non ha avuto altra scelta che ritirare dalla vendita il controverso maglione, pubblicando sui social un comunicato ufficiale di scuse. La firma assicura che l’incidente va considerato “un potente momento di insegnamento, una lezione per il team Gucci”, impegnandosi a “promuovere maggiormente la diversità” nelle sue creazioni.   

La bufera “blackface” su Gucci interviene a poche ore dalla presentazione della sua collezione primavera-estate 2019, che il suo art director Alessandro Michele dedica al musical americano, con capi ispirati da film degli anni ’50 come “Un Americano a Parigi”, “Gli uomini preferiscono le bionde” e “Cantando sotto la pioggia”.

Altro successo delle ultime ore per Gucci è la classifica stilata da Lyst, piattaforma globale di ricerche di moda, che gli assegna il primo posto sul podio: nel 2018 Gucci è stato il brand più amato al mondo. Nella top 10, la casa di moda italiana è in compagnia di altre eccellenze dello stivale come Moncler, Fendi, Versace, Stone Island e Valentino.

Storia della “blackface” negli Stati Uniti

La “blackface” nacque negli Stati Uniti nella prima metà dell’Ottocento, e fu una diffusa forma di intrattenimento tipica degli spettacoli dei “menestrelli”, nei quali attori – prevalentemente bianchi – interpretavano schiavi africani liberati, esibendo tutto il repertorio di luoghi comuni sulle popolazioni autoctone dell’Africa e rappresentando gli schiavi alla stregua di animali da zoo.

Queste rappresentazioni caricaturali, che ridicolizzavano gli schiavi e li identificavano con pochi tratti, spesso esagerati o inventati, ebbero un’influenza notevole sul modo in cui vennero considerati gli afroamericani nei decenni successivi. Furono gli spettacoli in “blackface” che costruirono il mito dell’africano pigro, superstizioso, pavido e buffone, che durò molto a lungo nella cultura popolare americana e che fu riproposto per esempio da molti cartoni animati della prima metà del Novecento.

La cosiddetta “iconografia darky”, quella che dipingeva gli africani con la pelle nerissima, le labbra rosse e i denti e le mani bianche ebbe molto successo anche nei giocattoli per bambini per diversi decenni.

Nel Novecento, spesso gli attori neri continuarono a truccarsi nello stile del “blackface”, perché era il modo in cui il pubblico bianco era abituato a vederli su un palcoscenico. Le cose cominciarono a cambiare definitivamente con i movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta, che tra i vari effetti provocarono una mutazione nella percezione del pubblico degli stereotipi razziali e di quello che poteva e non poteva essere rappresentato in televisione. 

Tuttavia negli Stati Uniti il dibattito sulla “blackface” è ancora aperto. Da una parte c’è chi nega il suo significato razzista, come la popolare conduttrice della NBC Megyn Kelly che di recente sosteneva che fosse ormai scomparso,

; secondo lei una pratica diventata innocua se applicata a un semplice travestimento di Halloween. Dall’altra c’è chi crede che non sia possibile scindere il “blackface” dal suo significato storicamente razzista.

In altre parti del mondo, il “blackface” continuò ancora per decenni: nel Regno Unito andò in onda fino al 1978 “The Black & White Ministrel Show”, un varietà che si basava precisamente sul questa rappresentazione. 

In Italia dal fascismo al travestimento tv

In Italia questo genere di stereotipi fu diffuso estesamente durante il fascismo, con le varie produzioni del regime che raccontavano la spedizione nel Corno d’Africa, dai fumetti per bambini ai documentari. Ma ci furono casi in cui, con decenni di ritardo rispetto agli Stati Uniti, il “blackface” arrivò anche al cinema, come nel film “Tototruffa ’62”: nel film, tuttavia, i due personaggi con la faccia pitturata erano effettivamente truffatori italiani che impersonavano dei diplomatici africani. In tv tale rappresentazione viene proposta di frequente.

Di recente si è parlato di un episodio di “blackface” sorprendente, quando a Monreale, in Sicilia, una scuola elementare ha realizzato un presepe vivente in cui i bambini si sono travestiti da abitanti dei vari continenti. Per rappresentare l’Africa, ai bambini è stata pitturata la faccia, e sono stati travestiti con gonnellini di liane, ossa al collo e canne di bambù. Oltre le presunte buone intenzioni, qualcuno ha fatto notare come la rappresentazione adottata riproponesse antichi stereotipi colonialisti e razzisti, che dipingevano gli africani come selvaggi e primitivi. 

In Italia il “blackface” è generalmente collegato al mascheramento, e sono relativamente in pochi a conoscerne la storia e il significato razzista. Ma è anche frequente che il “blackface” sia accompagnato ancora oggi da forme di comicità palesemente razziste, come nel caso di un video del comico di Zelig Dado, che fu molto criticato un paio di anni fa.

Le gaffe delle case di moda

Lo scorso dicembre anche Prada è stata accusata di aver utilizzato immagini in stile “blackface” in una delle sue vetrine di New York e online, ad esempio con un modello di portachiavi, ma non solo. Come parte di una nuova campagna di marketing per le vacanze intitolata “Pradamalia”, il marchio di lusso presentava una caricatura nera con grandi labbra rosse esagerate.

Le foto hanno provocato una forte reazione sui social media e hanno spinto la società a sbarazzarsi degli articoli e di un display. In segno di protesta gruppi di persone si sono messi fuori dal negozio newyorkese che esponeva il controverso display definito da molti “blackface imagery”, “razzista” e “denigratorio”, persuadendo altri clienti ad andare altrove. I dirigenti di Prada hanno detto di aborrire tutte le forme di razzismo e di immagini razziste, ritirando i pupazzi dalla vetrina e dalla vendita.

Non esenti da gaffe razziste anche le firme di moda low cost. Nel gennaio 2018, per una campagna pubblicitaria negli Stati Uniti, il marchio low cost svedese ha scelto un bambino di colore per sponsorizzare sul suo sito una felpa di colore verde riportante la dicitura “The coolest monkey in the jungle” (“La scimmia più cool nella giungla”). Un commentatore del New York Times ha pubblicato sul suo profilo di Instagram una reazione indignata: lo slogan associato al viso di colore del bambino straniero veicola un messaggio discriminante e imbarazzante.

Non appena sono iniziate le polemiche sui social, l’immagine del bambino afroamericano è stata immediatamente cancellata e la felpa ritirata dalla vendita. “Siamo sinceramente dispiaciuti e non era nostra intenzione offendere nessuno con l’immagine stampata sulla nostra felpa. L’immagine è stata rimossa immediatamente da tutti i nostri canali online”, hanno dichiarato i responsabili comunicazione di H&M, presentando le scuse.

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