Sono andati avanti centimetro dopo centimetro, lottando contro tutto: contro una roccia che proprio in quel punto si doveva trovare, costretti a calibrare ogni picconata perché un crollo anche minimo avrebbe potuto far scivolare il bambino ancora più giù, in quel budello largo 30 centimetri che scende fino a 60 metri sotto terra; contro la fretta, perché ogni minuto poteva fare la differenza tra la vita e la morte; contro la paura, perché tutto poteva andare storto. Contro la fatica, perché tutti erano in ballo da cinque giorni, ormai, con le braccia stanche e i nervi a pezzi. Hanno scavato a mano e solidificato qual tunnel che sembrava non finire mai e poi eccolo, il piccolo. Sdraiato su un fianco, sfinito, ma vivo.
“È vivo. Lo tiriamo fuori”, hanno urlato i soccorritori quando lo hanno raggiunto. Il piccolo Rayan era lì, rannicchiato a 32 metri di profondità, finalmente a pochi centimetri da loro. «Non ha riportato ferite gravi», hanno detto i soccorritori, sbagliando purtroppo, e hanno subito iniziato le operazioni per l’estrazione del bambino. Per cinque ore hanno lavorato nel tunnel orizzontale che collegava quello verticale scavato nei giorni scorsi parallelamente al pozzo in cui era caduto.
Poi lo hanno estratto dal pozzo, caricato su un’ambulanza, traportato a un elicottero che lo aspettava per portarlo in ospedale. Il mondo ha sperato, ci ha creduto. Poi il gelo. Una nota ufficiale dell’ufficio del protocollo del re del Marocco ha comunicato che Rayan era morto. Il re Mohammed VI ha telefonato ai genitori per porgere le proprie condoglianze.
Questa vicenda ci riporta indietro di 40 anni, Rayan come Alfredino Rampi anche allora le operazioni di recupero vennero trasmesse in diretta tv per oltre 18 ore, paralizzarono l’Italia intera. Anche l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini si precipitò sul posto. Una vicenda che ancora oggi resta dolorosa.