Un anno fa la catena di camion con le bare che lasciavano Bergamo era già il rosario di un lutto dal quale il Paese non è ancora uscito. In quell’immagine simbolo che descriveva la tragedia piombata sulle nostre vite, a guidare uno dei mezzi diretti verso i crematori di mezza Italia c’era anche Tomaso Chessa, caporal maggiore scelto dell’esercito, impegnato in prima linea durante l’emergenza più dura. “Per rispetto delle vittime ho scelto il silenzio. C’è tanta gente che ancora soffre”, dice nel giorno nella Giornata Nazionale in memoria dei morti del Covid. E’ imploso di fronte al dolore senza soccombere, consapevole del suo ruolo di soldato: in questi mesi tanta gente lo ha contattato chiedendogli del proprio familiare, per capire se tra le 969 bare caricate sui mezzi diventati un immenso carro funebre lui avesse riconosciuto un nome o saputo qualcosa. Hanno tentato di sapere qualcosa di quell’ultimo viaggio dei loro cari, soli attraversando una città sola. Chessa, 43 anni di Aglientu (in provincia di Sassari), è in servizio al Reggimento di supporto tattico e logistico di Solbiate Olona, a Varese, ed è uno dei militari che hanno dato l’ultimo saluto a quelle anime. Per settimane gli ‘Actl’ hanno fatto la spola da Bergamo al primo inceneritore di corpi disponibile, spesso fuori dalla Lombardia.
Nel maggio scorso, con la fine del primo lockdown, Chessa scrisse un lungo post su Facebook, pieno di pause e sospensioni, per raccontare quei mesi terribili: “Essere alla guida di un camion, una giornata qualunque dove il pensiero ti porta oltre la tua quotidianità – descriveva – Tu guidi, scambi due chiacchere con il collega alla parte opposta della cabina, ma quando per forza di cose, per un istante il silenzio rompe la tua routine, il tuo pensiero si posa su di loro, realizzi che dentro quel camion non siamo in due, ma in sette….cinque dei quali affrontano il loro ultimo viaggio…e si….l’ultimo…ti rendi conto di essere la persona sbagliata, o meglio, qualcuno doveva essere al posto tuo ma purtroppo non puo… tocca a te….ed è li che sentì addosso quella grande responsabilità, qualcosa che ti preme dentro, ogni buca, ogni avvallamento sembra una mancanza di rispetto nei loro confronti…poi arrivi lì alla fine del tuo viaggio, dove ti ritrovi ad abbandonare ‘il tuo carico’, oramai fa parte di te, come se ti togliessero una parte di cuore, ed è li che cerchi di capire l’identità del tuo compagno di viaggio”. Tra i tanti, era riuscito a riconoscere un nome: “delle otto persone che personalmente ho accompagnato, l’unico dei quali sono riuscito a risalite alla sua identità è il Signor Guerra classe 1938. Pagherei oro per conoscere tutti i parenti delle otto persone e potergli dire che nonostante il contesto non avrebbero potuto fare un viaggio migliore. Spero un giorno di poter conoscere i cari dei miei compagni del loro ultimo viaggio, ma se cosi non fosse sappiano che c’ho messo l’anima”. Da allora c’è chi non ha smesso di chiedere al caporal maggiore Chessa di ricordare un particolare, un dettaglio, una circostanza su quei momenti: è l’ultimo insperato tentativo di far corrispondere al feretro il nome di ogni combattente, caduto in guerra contro il virus.
Fonte Ansa.it