Una baby gang che si ispirava ad un violento videogioco è stata individuata dalla questura di Monza: 6 gli arresti scattati sabato mattina a seguito di un’ordinanza custodia cautelare in carcere emessa dal gip brianzolo.
L’operazione, denominata “G.T.A. Monza”, per richiamare il nome del videogioco, Grand Theft Auto, ha portato anche a perquisizioni domiciliari nelle abitazioni dei giovanissimi. Gli arrestati sono tutti gravemente indiziati, a vario titolo, di un tentato omicidio e di dieci rapine aggravate, oltre ai delitti di lesioni, furto, minacce gravi e spaccio di stupefacenti, reati tutti commessi a Monza tra il marzo 2018 ed il gennaio 2019.
“Controllo del territorio” e “forza intimidatoria del branco”: sono i due elementi che caratterizzavano la baby gang protagonista di almeno 10 rapine che gli investigatori sono riusciti a ricostruire in collaborazione con l’anticrimine della Lombardia e la Scientifica. I sei arrestati, giovani residenti a Monza e nell’hinterland, sono tutti appartenenti allo stesso gruppo, che si era dato anche un nome identificativo: in città infatti erano noti come la “compagnia del Centro” o “compagnia del Ponte”.
Le investigazioni hanno delineato come le vittime scelte, spesso coetanei, fossero persone considerate deboli: dall’altro lato invece, la prevaricazione messa in atto dal branco arrivava a far desistere i malcapitati da ogni tentativo di resistenza. Tra coloro che hanno subito le aggressioni violenti dei ragazzi “del Ponte” anche un senzatetto.
Il gruppo agiva con un fine ben preciso: imporre il proprio controllo sul centro di Monza, come testimoniano alcuni episodi in cui è stata pronunciata la frase: “Questa è la nostra zona”. Durante le perquisizioni sono stati sequestrati telefoni cellulari ed altri oggetti personali.
E’ soprattutto un problema di “disinformazione” quello che riguarda i videogiochi in Italia, denuncia Gian Luca Rocco, uno dei massimi esperti nel nostro Paese su questo tema. Anche per quanto riguarda Grand Theft Auto, il videogame al centro delle cronache perché avrebbe ispirato la baby gang di Monza, si ribella al parallelismo tra la violenza giocata e quella agita.
Grand Theft Auto è una serie di videogame nata nel 1997 come gioco d’azione bidimensionale e passata al 3D con il terzo capitolo nel 2001, che certamente si presta a critiche per il suo approccio, in cui il giocatore è sostanzialmente chiamato a muoversi e agire nei panni di un criminale (o più di uno, nel caso dell’ultimo capitolo Grand Theft Auto V, pubblicato nel 2013) e a svolgere attività illegali di vario tipo. Nella sua declinazione multiplayer, Grand Theft Auto Online, i giocatori possono anche eseguire rapine insieme agli amici. “Solo dunque nell’ultimo capitolo il protagonista si aggrega ad altri per compiere azioni criminali”, spiega l’esperto.
E in effetti, nelle intercettazioni raccolte dai poliziotti di Monza, il riferimento a G.T.A. compare una volta: in fondo poco per dire che sia stato proprio videogioco il collante tra gli appartenenti alla “compagnia del Centro”, o “del Ponte”, come erano conosciuti questi ragazzi tra i coetanei. “In G.T.A. tuttavia la violenza è quasi una parodia e non c’è mai realismo forte che porti davvero allo sviluppo di aggressività” aggiunge Rocco.
C’è poi un anello mancante nella catena: quello dei genitori. “Sulle scatole dei videogame l’età al di sotto della quale è vietato far avvicinare i propri figli – in questo caso 18 anni – è messa bene in evidenza. Esattamente come accade ai film. Purtroppo però gli stessi genitori che non farebbero mai guardare ad un ragazzo 11enne ‘Arancia Meccanica’ o ‘Pulp Fiction’ non conoscono e forse non capiscono che cosa siano e in cosa consistano i videogame che comprano per i propri i figli”.
Negli Stati Uniti, dove la cultura relativa all’intrattenimento è molto più varia, non si “farebbe mai il collegamento causa-effetto tra appassionato di gioco e persona violenta” approfondisce l’esperto. Insomma, come dire che le “paranze”, ovvero le gang violente di bambini presenti a Napoli, si siano ispirate a Gomorra e “non il contrario”. La posizione degli appassionati – che in Italia sono molto più di quello che si pensa, visto che il giro d’affari stimato è di circa 1,7 miliardi – è dunque precisa: non demonizzare l’attività, che resta una “forma di intrattenimento, ma soprattutto una forma espressiva” come il cinema, in grado di rappresentare “un presente o un futuro, nel quale la violenza è solo uno degli aspetti”.
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