Non c’è solo la lentezza della “burocrazia procedurale” a rallentare, quando non addirittura bloccare, la ricostruzione dei territori del Centro Italia colpiti dai terremoti del 2016. Al fianco delle già tanto discusse, contestate e tristemente note lentezze degli uffici preposti a vagliare e autorizzare i giganteschi faldoni di pratiche accumulate in questi due anni e mezzo, soprattutto da parte dei privati, c’è un altro punto nero.
Quello del personale impiegato in quello che è stato più volte definito il “cantiere più grande d’Europa”, e cioè quello della ricostruzione dei territori di Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo messi in ginocchio dai fenomeni sismici del 24 agosto, 26 ottobre e 30 ottobre del 2016.
Un personale numericamente di molto inferiore a quello che sarebbe necessario per sbrigare tutte le pratiche in tempi ragionevoli, e che nonostante questo sottodimensionamento è inquadrato con contratti a termine, di breve durata, molti dei quali con scadenze imminenti, soggette a rinnovi tutt’altro che “di prospettiva”.
Mucchi di scartoffie
È l’altra faccia (o se vogliamo la stessa) di uno Stato che sembra non aver compreso a fondo la necessità di correre, in un territorio dove si continua a marciare a passo lento. Emblematica fu la frase più volte ripetuta dal Sergio Pirozzi, quando, da sindaco di Amatrice, ripetè fino allo stremo come “in tempo di guerra non si possono adottare misure di pace”.
Una frase immortalata nella fotografia che il portale Tpinews dona su quella che è ad oggi la situazione nelle Marche. E che, per proprietà transitiva, può essere estesa anche alle altre tre regioni del Centro Italia, dove vigono le stesse ordinanze, gli stessi decreti e gli stessi provvedimenti varati in questi 36 mesi e più.
Vent’anni per rilasciare i permessi
“Con le risorse che ho a disposizione riusciamo a fare 30 decreti a settimana. Un decreto significa dare soldi e il consenso all’apertura del cantiere. Sono 120 in un mese. Approssimando la stima, 1.500 all’anno. Quindi la proiezione solo per dare il via libera a tutti gli interventi necessari per la ricostruzione, ad oggi, è di ben 20 anni”, è il quadro tracciato dal presidente dell’Ufficio Speciale per la Ricostruzione post-sisma delle Marche, Cesare Spuri, che ben sintetizza come, di fronte ad una mole di lavoro burocratico immenso, le 188 risorse attualmente impiegate nella struttura marchigiana sono a dir poco insufficienti. Non solo.
Di queste risorse la stragrande maggioranza ha il contratto in scadenza, oppure appena rinnovato ma a tempo. Senza contare che, nella maggior parte dei casi, e su tutte le quattro Regioni, gli addetti sono passati e passano per le forche caudine delle agenzie interinali, o per quelle di società pubbliche o para-pubbliche di somministrazione del lavoro. Il che, vista la particolarità e la delicatezza della situazione, non sembra essere proprio il massimo per garantire quello che, a gran voce, chiedono tutti i cittadini dell’area del cratere, e cioè una visione di prospettiva.
Prima scadranno i contratti
Il resto lo dicono i numeri: procedure di ricostruzione avviate che non arrivano neanche al 10% del totale per gli edifici più lesionati, autorizzazioni che passano per i lacci e i lacciuoli di decreti il più delle volte più complessi delle leggi ordinarie, il tutto nelle mani di personale, sia quello “d’ufficio” che quello “tecnico” (ingegneri, architetti e geologi, che dovrebbero essere il cuore pulsante della ricostruzione), il cui orizzonte lavorativo ha una data di scadenza ben inferiore di quella prevista per le stime della ricostruzione.
Il rischio bancarotta
E in tutto questo, a pagare forse le conseguenze maggiori, sono i Comuni, impossibilitati pure loro a rimpolpare le piante organiche delle strutture amministrative – cosa che sarebbe necessaria a rigor di una logica pressoché elementare, considerando che la quasi totalità dei Comuni danneggiati sono al di sotto dei cinquemila abitanti, e quindi strutturalmente non in grado di affrontare una situazione del genere -, e da qualche tempo alle prese anche con le relative difficoltà economiche nel far fronte alle spese. Quelle sì, incredibile ma vero, aumentate. Si spiega così l’appello accorato lanciato nei giorni scorsi dal sindaco di Accumoli, Stefano Petrucci, che ha vaticinato il rischio, concreto, di andare in bancarotta. In quel Comune che fu epicentro del tragico terremoto del 24 agosto 2016, e dove ora anche le ultime luci sembrano destinate a spegnersi.
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