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L’utopia della meritocrazia

dott. Marino D’Amore

 

Meritocrazia: un termine che nella sua semplicità riesce ad esprimere uno dei concetti più alti e moderni che la nostra civiltà, la nostra società abbia mai concepito. Una parola che esprime la perfetta sintesi tra giustizia, sociale, culturale, e progresso. Applicando una mera e semplicistica analisi linguistica la parola si contestualizza nell’ambito semantico del potere, delle cosiddette – Crazie dal suffisso greco cratos come la democrazia: il governo del popolo o la plutocrazia: il governo della ricchezza, che grazie alla disponibilità d’ingenti capitali riesce ad influenzare gli orientamenti e le decisioni politiche di una comunità.

La meritocrazia, quindi secondo questo schema, è una forma di potere, un potere benigno s’intenda, perché è il potere del merito, è un potere che permette, a tutti coloro che lo detengono, di migliorare, di evolversi, di raggiungere degli obiettivi di vita importanti, unicamente contando sulle proprie forze, sui propri sacrifici, sul proprio merito appunto. Senza l’aiuto di alcun agente esterno, della cosiddetta “spintarella” o più o meno accalorata raccomandazione: questa è la meritocrazia.

Un concetto il cui contenuto semantico è comune, di ampio respiro, trasversale, ma tale trasversalità è purtroppo, e aggiungo da troppo tempo, inversamente proporzionale alla sua applicazione. Almeno nella nostra quotidianità, nel mondo in cui viviamo, questa legge tacita, ma unanimemente accettata, rappresenta la cifra culturale dei nostri tempi, li ricontestualizza, li connota, diventando la norma piuttosto che una meschina involuzione socioculturale da evitare e combattere. Perché attualmente, la meritocrazia, un concetto che ha insito in sé anche quello di valorizzazione delle capacità individuali, di selezione dei migliori, delle elitè, delle intellighenzie sembra essere vuoto, privo di un peso fattuale, concreto ma soprattutto intellettuale, sostituito da un altro concetto che ne è una sorta di esasperazione, un surrogato aberrante, un alter ego semantico molto più pericoloso: la mediocrazia. Quest’ultima rappresenta un’altra forma di potere, come si evince dal medesimo suffisso che la caratterizza e l’accomuna alle altre parole precedentemente citate, ma in questo neologismo la crasi linguistica nasce dal connubio tra il greco-cratos e la parola latina medius, in un ideale unione tra lingue antiche, dando origine al potere dei mediocri. Il termine latino medio indica letteralmente ciò che è in mezzo fra gli estremi; che sta fra il molto e il poco, fra il grande e il piccolo, fra il buono e il cattivo, ma con il tempo ha assunto un’accezione decisamente più negativa, caratterizzata dalla povertà di contenuti, dalla modesta qualità e dallo scarso valore morale e intellettuale. Ecco la meritocrazia ha lasciato il posto alla mediocrazia, il molto al poco, l’eccellenza alla mediocrità. Poco male se questa transizione riguardasse un oggetto, un cibo o un bene effimero, in quel caso verrebbe sostituito immediatamente da uno migliore, ma quando il discorso riguarda i professionisti, le elitè di un paese o peggio ancora una classe dirigente la questione diventa più complessa e ci riguarda tutti, diventa un fatto sociale ma anche squisitamente personale. Riflettendo per metafora: Affidereste mai un vostro caro che deve subire un intervento chirurgico ad un medico impreparato o che ha fatto carriera non per merito suo, ma perché spinto da un suo mecenate troppo superficiale? Io credo di no! È lapalissiano che vorremmo le migliori cure applicate dai migliori medici, perché in quel momento è in gioco la vita di un nostro affetto. La stessa cosa avviene nel paese: se pensiamo al nostro paese come un grande organismo sociale vogliamo che la sua gestione, la sua cura, la sua manutenzione intellettuale, civile e politica sia affidata alle menti migliori. Sappiamo che questo non avviene. Sappiamo, purtroppo, che in molti ambiti i ruoli fondamentali, le poltrone più importanti vengono affidate a persone, per usare un eufemismo, impreparate nel migliore dei casi, solo perché sono figli, amici di amici o amanti di. Questo è il più grande difetto della mentalità italiana, la sua cifra culturale rispetto ad altri paesi: il non chiedersi il perché di certe situazioni, il non farsi domande, il non indignarsi di fronte al più becero dei soprusi ma accettare le decisioni altrui come le migliori, senza chiedersi se siano le migliori per noi. Se riflettiamo un secondo questo è ancora più grave. Poiché diventa davvero squallido e in certi casi grottesco, vedere professionisti pubblici che non conoscono il congiuntivo, esponenti politici che non conoscono la data dell’Unità d’Italia o quali guerre sono state combattute per la sua indipendenza, personaggi dal quoziente intellettivo quantomeno dubbio ricoprire cariche istituzionali, con le relative retribuzioni, di uno stato di cui predicano la secessione. Questi sono i cancri che nascono dalla mediocrazia e che proliferano senza darci la possibilità di reagire, di chiederci perché? Ma c’impongono di accettare situazioni precostituite e funzionali al rendiconto personale di altri. Non è giusto che i ragazzi vengano formati da docenti impreparati, che lo stato sia guidato da politici che non ne conoscono la storia e gli sforzi in termini di vite e personalità politiche che lo hanno reso tale, che i concorsi pubblici vengano vinti non dai migliori, ma da coloro che possono vantare la raccomandazione più altisonante. Non è giusto perché la crisi che stiamo vivendo, che ci attanaglia da anni e da cui non sappiamo uscire nasce proprio da queste aberrazioni, da questi anacronismi socio-culturali: Questa è la mediocrazia e queste sono le sue terribili conseguenze. Citando Johann Wolfgang Goethe La mediocrità non ha consolazione più grande del pensiero che il genio non è immortale. Il suo nemico è la consapevolezza e la coscienza di sé e di ciò che ci circonda. Basta davvero poco affinché quel genio e quella consapevolezza possano rinascere e migliorare il mondo, quel mondo da tramandare alle generazioni future, come disse il grande capo Seattle all’Assemblea Tribale del 1854, in risposta ad una offerta di acquisto che, il suo omologo, il “Grande Capo” di Washington, il presidente Douglas, fece per una vasta area di territorio in cambio di una riserva per il popolo indiano:

“Il Grande Capo a Washington ci manda a dire che desidera comprare la nostra terra. Il Grande Capo ci manda anche parole di amicizia e di buona volontà. Questo è gentile da parte sua perché noi sappiamo che egli ha poco bisogno della nostra amicizia in cambio. Ma noi prenderemo in considerazione la sua offerta. Perché sappiamo che se noi non vendiamo la nostra terra l’uomo bianco può venire con i fucili e prendersela. Come è possibile comprare o vendere il cielo, il tepore della terra? L’idea è estranea a noi. Se noi non possediamo la freschezza dell’aria e lo scintillio dell’acqua sotto il sole, come potete voi comprarli?

Noi non ereditiamo il mondo dai nostri padri, ma lo riceviamo in prestito dai nostri figli.”.

Diventa perciò necessario e indispensabile provare a migliorarlo, renderlo migliore perché sia abitato da gente migliore, da un punto di vista culturale e morale.

Occorre provare a fare tutto questo se non per noi almeno per i nostri figli e per il loro futuro, dato che a loro, come disse Seattle, dovremo restituirlo. Questo è la cosa che davvero conta e che deve guidare ogni singolo nostro sforzo.

 

a cura del Dott. Marino D’Amore

 

 

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