Si è spento stamattina a Zurigo l’amministratore delegato di FCA, dirigente d’azienda tra i più elogiati e discussi, che ha trasformato la prima grande industria italiana nella prima multinazionale d’Italia
Sergio Marchionne è morto. L’amministratore delegato di FCA si è spento stamattina a Zurigo, all’età di 66 anni, nella clinica in cui era ricoverato da fine giugno. Accanto a lui la compagna Manuela Battezzato e i figli Alessio e Tyler. Per il resto, molto riserbo attorno a una figura che ha sempre voluto tenere dietro le quinte la propria vita privata. Al punto che sulle stesse condizioni di salute che lo avrebbero portato alla morte, in questi giorni si sono inseguite le indiscrezioni: smentita la causa tumorale, suggerita da quella “passione per le sigarette” rivelata dall’amico Franzo Grande Stevens, il quotidiano torinese La Stampa spiega che il decesso è avvenuto dopo due arresti cardiocircolatori, conseguenza a loro volta di una complicazione seguita ad un intervento chirurgico alla spalla che il manager aveva subito circa tre settimane fa.
Di Sergio Marchionne resta la reputazione di autorevole dirigente d’azienda, decantata dai media nazionali e non, capace di risollevare un’azienda, la FIAT, che nel 2004 perdeva 2 milioni di euro al giorno e oggi, grazie alla successiva acquisizione di Chryslernel 2009, altra abile operazione manageriale, rappresenta il sesto gruppo automobilistico nel mondo.
Il salvatore della prima grande industria italiana, lui che con l’Italia, in fondo, condivideva solo le origini. Figlio di un carabiniere abruzzese in servizio in Istria, esule a seguito del passaggio della regione alla Jugoslavia di Tito alla fine della Seconda Guerra Mondiale, trasferitosi a Chieti, nella terra natale del padre, per poi intraprendere un nuovo cammino verso il Canada, dove compì gli studi superiori e universitari ed esercitò le prime esperienze lavorative, come commercialista, procuratore legale, avvocato ed esperto contabile. Al suo arrivo nel cda della FIAT, nel 2003, Marchionne era un manager straniero: lo volle Umberto Agnelli per le capacità dimostrate nel risollevare le sorti di un’azienda svizzera, la SGS. E dalla sua nomina come amministratore delegato della casa automobilistica torinese, nel 2004, impostò il percorso di ristrutturazione di un’azienda all’epoca totalmente identificata con la famiglia Agnelli, sia nell’immagine che nella gestione.
Oggi, invece, la FIAT è a immagine e somiglianza di Marchionne e della reputazione di grande fabbrica italiana del dopoguerra, “famiglia” di tanti lavoratori, le è rimasto ben poco. Delle 4 milioni 863 mila auto prodotte all’anno dal gruppo solo 1 su 7 è realizzata in Italia. I dipendenti della Fiat nel 2000 in Italia erano 130mila, oggi 29mila in tutto: chiusi stabilimenti storici come Termini Imerese, Mirafiori, spostate le produzioni in Polonia e Serbia, spostata la sede in Lussemburgo e la sede fiscale in Inghilterra. D’altra parte nemmeno Marchionne è residente in Italia, ma in Svizzera, cosa per cui gli si contesta di non aver pagato le tasse all’Italia che per anni l’ha reso il manager più pagato (superato solo quest’anno da Flavio Cattaneo), con uno stipendio “pari alla busta paga di 6400 operai FIAT” e un patrimonio personale messo insieme in quindici anni pari a circa mezzo miliardo di dollari, 428 milioni di euro.
La verità è che Sergio Marchionne è stato il manager meno italiano d’Italia e, forse, per questo ha fatto la fortuna degli Agnelli. Con la sua gestione e, addirittura, con la sua immagine (il look casual del maglioncino) ha importato un modello che viene da fuori. Curiosità è che, laureatosi originariamente in filosofia, Marchionne nel 2010 ricevette il Premio Pico al Teatro Nuovo di Mirandola, premio intitolato appunto a Giovanni Pico della Mirandola, il filosofo rinascimentale: nel periodo di massimo splendore della cultura italiana, il meno italiano dei pensatori, teorico di un ecumenismo filosofico che raccoglieva elementi del pensiero teologico cristiano ed esoterico, della filosofia greca, dell’islamismo e dell’ebraismo, nonché dei mistici di ogni tempo e luogo.
Ecco, nell’Italia del post crisi economica, dei dazi e dei sovranismi, chissà cosa resterà del manager che ha trasformato la prima, storica grande industria del Paese nella prima multinazionale d’Italia. Che intanto, come suo successore, per non sbagliare ha nominato un inglese.