Ha destato sdegno e anche commozione l’uccisione a sangue freddo del maresciallo dei Carabinieri Vincenzo Di Gennaro, 47 anni, a Varano Cagnano in provincia di Foggia, da parte di un pregiudicato e spacciatore fermato dalla pattuglia nel corso di un controllo, che ha sparato anche “per vendetta”.
E così alcune prime pagine dei quotidiani si sono orientate a titolare con evidenza. Con letture diverse. A cominciare da la Repubblica: “Carabiniere caduto sul fronte della droga”, a cui fa seguito Il Giornale: “Spari sulla libertà”. Mentre “Vendetta del killer della cocaina” è il titolo del Messaggero sotto la foto della macchina dei Carabinieri coperta da un cellophane su cui è adagiata una bandiera tricolore. Stessa scelta del Corriere della Sera, che mette l’accento sulla reazione del genitore della vittima: “Il papà: orgoglioso”. O Libero: “Foggia capitale del crimine”.
Ma al di là dell’agguato, del suo aspetto tecnico, l’alt della pattuglia, la reazione del fermato, la cronaca de la Repubblica mette subito sull’avviso: “Ricordatevi il nome del maresciallo Vincenzo Di Gennaro. Perché, presto, lo dimenticherete. In questa terra maledetta sono trent’anni che si dimenticano eroi e malandrini, innocenti e colpevoli, buoni e cattivi. Chi sa chi erano, per esempio, Aurelio e Luigi Luciani? Erano due contadini, due persone perbene, trucidate il 9 agosto del 2017 a San Marco in Lamis, pochi chilometri da Cagnano Varano soltanto per essersi trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato. A pochi passi, cioè, da un’esecuzione mafiosa”. Il seguito dell’articolo racconta perciò “La nuova Gomorra del Gargano dove fa affari la mafia più feroce”.
Questo incipit offre il preteso a Carlo Bonini, sulle stesse colonne, per ragionare su “La zona rossa della nostra insicurezza” e su quel “filo dei clan” che lega Milano a Foggia, per esempio. Due città separate da ottocento chilometri ma nel cui spazio “ci sono tre o quattro Italie”. Eppure i colpi esplosi (…) raccontano la medesima catastrofe di un Paese compulsivamente prigioniero di una remunerativa parola d’ordine della Politica — sicurezza — eppure smarrito nel sentirsene regolarmente orfano”.
“La verità è che, stordito da una propaganda che semplifica con ferocia e rozzezza ciò che semplice non è, il Paese ha perso di vista quello che il sangue di Milano e di Cagnano Varano ci dicono. Che la sicurezza di una collettività, delle sue strade, delle sue piazze, delle sue case, è nella consapevolezza piena della realtà dei territori in cui vive. Nella convinzione che affidare una ordinata convivenza civile a dieci, cento, mille poliziotti, carabinieri o magistrati in più, o armare per legittima difesa i padri di famiglia con diecimila o centomila fucili in più, equivale a decidere di svuotare il mare con un secchiello. Dunque, a dichiarare bancarotta dell’intelligenza”.
Così, “chi oggi cade dal pero” per l’esecuzione del maresciallo Anghinelli, seguita Bonini, “dovrebbe fare mente locale al fiume di cocaina che ha reso Milano, non da ieri, uno dei più grandi mercati della droga d’Europa”, citando i dati contenuti nell’ultima relazione annuale del Parlamento sulle tossicodipendenze (2018), in cui si può leggere: “Sulla base di quanto rilevato nel 2017, circa 4 milioni di italiani hanno utilizzato almeno una sostanza stupefacente illegale e, di questi, mezzo milione ne fa un uso frequente”.
Tanto che “Il mercato delle sostanze stupefacenti pesa per lo 0,9% del Pil”, più o meno quattro volte la crescita stimata della nostra economia per l’anno in corso, e “il loro consumo è calcolato valere 14,4 miliardi di euro, il 40% del quale per il solo acquisto di cocaina”. Per osservare poi, che “siamo dunque il Paese che mentre si pippa 6 miliardi di euro l’anno in cocaina, inveisce contro ‘i negri che spacciano’ e immagina grottesche ‘zone rosse’ nei centri storici, confondendo, con tutta evidenza, la causa con l’effetto. Pensando che spostando la coca più in là, occhio non veda e cuore non dolga. O che ripulita una piazza di spaccio (come evidentemente è giusto ma non sufficiente fare) quella piazza, prima o poi, non torni a riempirsi. Fino a quando, appunto, una mattina come le altre, nella civile via Cadore, gli attori feroci e famelici di quel mercato da 14,4 miliardi di euro non piantano una pallottola in testa a un cristiano”.
L’editoriale de Il Giornale, a firma del direttore Alessandro Sallusti, è invece un’esortazione: “Difendete chi ci difende”. “Non mi illudo – scrive –, finito il lutto d’ordinanza temo che la sarabanda riprenderà esattamente come prima e le forze dell’ordine resteranno centrali nei cuori (elettorali) dei politici ma marginali nei decreti che stanziano soldi un po’ per tutti e mai a sufficienza per loro. Così come la burocrazia giudiziaria e un Codice penale da Azzeccagarbugli continueranno imperterriti a vanificare gli sforzi di chi pensa, come lo pensava Vincenzo Di Gennaro, che un ladro o uno spacciatore presi sono un ladro e uno spacciatore in meno a piede libero”.
Sallusti quindi chiede “più soldi, più uomini e più mezzi alle forze dell’ordine, più severità da parte dei magistrati anche sui casi che non portano i loro nomi sulle prime pagine dei giornali: questo serve se vogliamo essere un Paese serio che non si indigna a gettone per poi passare oltre come se nulla fosse, come se il carabiniere Vincenzo Di Gennaro, 47 anni da Foggia, non fosse mai esistito”.
Su Libero, Renato Farina si chiede invece “Chi è il maresciallo dei carabinieri in Italia?” Per poi rispondere: È uno che c’è. Nelle piccole città che sono il nerbo segreto del nostro Paese, c’è sempre. Dove c’è un problema, una bega di cortile o da bar sport, la gente lo chiama, e lui prova a far da paciere, a trovare una strada per spegnere i rancori. Poche manette, molto buon senso. Autorevolezza che è un dato di umanità congiunto alla divisa, che non è mai un’armatura di ferro, ma, per le brave persone, l’uniforme rasserenante di una confraternita amica. Un litigio tra vicini, una questione di odi tra parenti, il sospetto di un commercio di droga, la voce su una vecchina tenuta prigioniera in casa. Il maresciallo c’è. Molto spesso prima di essere informato da una telefonata, sapeva già”.
Anche il focus de Il Messaggero segue la pista della “mafia foggiana” che va “Dai negozi fatti esplodere agli omicidi” in una città “dalla criminalità ‘paramilitare’”. Dove “da metà degli anni Ottanta ad oggi sono oltre 300 i delitti di sangue. Una criminalità spietata, senza scrupoli, forse la più brutale in Italia anche se meno ‘famosa’ della Camorra o della ‘Ndrangheta (…) che gli inquirenti della Direzione antimafia paragonano per efferatezza a Cosa Nostra corleonese, quella di Totò Riina” si legge in cronaca.
E se il vicepremier leghista Salvini chiede e dice che “il killer deve restare in cella tutta la vita”, il Corriere dà invece voce al vicepremier pentastellato Luigi Di Maio, che dice: “Abbiamo parlato di legittima difesa ma la vera legittima difesa serve per le nostre forze di polizia” promettendo di parlarne a breve con il ministro della Giustizia Bonafede e con il Viminale. “Nella testa del vicepremier — si legge nel retroscena — prende corpo l’idea di inserire delle aggravanti per chi compie violenze contro le forze di polizia e militari, insomma verso chi opera nel comparto sicurezza, inclusi vigili del fuoco. Misura che potrebbe già trovare spazio in un provvedimento che Bonafede sta mettendo a punto con il ministro Grillo sulla violenza contro medici e funzionari degli ospedali”.
Agi