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Ermanno Lavorini
Ermanno Lavorini ha dodici anni e vive a Viareggio: frequenta la seconda media. Ha dei compiti da fare per la scuola, quel venerdì 31 gennaio del 1969. Ma, prima di mettersi sui libri, Ermanno decide di uscire a fare due passi. “Un’ora e torno a casa”, dice a sua mamma: sono le 14.30. Ma a casa non tornerà mai. Quello stesso giorno viene rapito e ucciso da un gruppo di ragazzi poco più grandi di lui.
Sono trascorsi 50 anni dall’omicidio di Lavorini, ma il suo caso continua a lasciare basiti. Sconvolge l’efferatezza del crimine, certamente, ma anche l’approssimazione con cui vennero condotte le indagini e la leggerezza con cui la stampa – quasi tutta, con l’eccezione di Marco Nozza, cronista de Il Giorno – catalogò il rapimento e l’uccisione del ragazzino di Viareggio come un delitto a sfondo sessuale. Una versione che, per la verità, fu per anni quella ufficiale, la pista battuta da chi indagava sulla morte di Lavorini.
Ogni giorno una bugia, una menzogna, quello che è bianco al mattino, diventa nero la sera.Baldisseri calca la mano sui motivi morbosi, sui pederasti, sugli adulti omosessuali del giro della pineta. Alla stampa italiana non par vero e montano l’ipotesi di delitto a sfondo sessuale pic.twitter.com/neYsc2MQ9R
— Johannes Bückler (@JohannesBuckler) 29 marzo 2018
La richiesta di riscatto
Alle 17.40 del 31 gennaio, a casa di Lavorini, arriva una telefonata: “Ermanno non tornerà a casa, anzi ritorna dopo cena. Dica a suo padre di preparare quindici milioni e di non avvertire la polizia”. Il ragazzino è stato rapito e i responsabili chiedono un riscatto. Da quel momento si scatena l’isteria collettiva di una intera comunità, quella viareggina, e di quasi tutta l’opinione pubblica italiana, che si convincono che i colpevoli siano i frequentatori notturni della pineta di Ponente di Viareggio: “Omosessuali in cerca di intimità e pedofili che vogliono accompagnarsi per soldi con dei ragazzini”, come ricostruito ne ‘Il caso Lavorini’, il libro di Sandro Provvisionato uscito a fine gennaio per Chiarelettere.
Il libro, scritto dal giornalista recentemente scomparso, ricostruisce l’intera vicenda: la città che punta il dito contro i cosiddetti “capovolti”, il termine dispregiativo che racchiude in un indistinto tutt’uno gay, travestiti e pedofili; i veri colpevoli che accusano adulti innocenti; la giustizia per mesi insiste sulla pista sbagliata, quella di un omicidio dai contorni (omo)sessuali: una grave approssimazione che finisce per provocare la morte di due innocenti indagati, uno di infarto, l’altro che si suicida in carcere. E poi la stampa che banchetta su quell’atroce crimine, alimentando i sospetti verso il mondo dei gay. Nel mega-tritacarne finiscono anche il sindaco di Viareggio, Renato Berchielli, poi un altro esponente socialista, Ferruccio Martinotti, entrambi costretti alle dimissioni.
La verità per troppi anni nascosta: il movente fu politico
La pineta e i suoi frequentatori esistevano davvero, non erano un’invenzione dettata dalla paura, e tra quegli alberi capitava anche che qualcuno, pure minorenne, esercitasse la prostituzione. Ma con il rapimento e l’uccisione di Lavorini gli omosessuali non c’entravano proprio nulla. Per accertare la verità, però, ci sarebbero voluti quasi dieci anni.
Il movente, come stabilito da Corte di Appello e Cassazione, fu politico: “Ermanno Lavorini fu assassinato durante un sequestro di persona, messo in atto da ragazzi poco più grandi di lui, per ottenere un riscatto che doveva servire a finanziare un gruppetto politico di estrema destra”, si legge nel libro di Provvisionato. Le settimane immediatamente precedenti al rapimento, spiega l’autore, erano d’altronde già state segnate da situazione di alta tensione sociale in tutta Italia. La sera del 31 dicembre, ad esempio, un gruppo di manifestanti di estrema sinistra aveva inscenato – a suon di lanci di uova, frutta e verdura – una protesta di fronte alla Bussola, esclusivo locale della riviera di Viareggio noto per i suoi veglioni di Capodanno trasmessi dalla Rai. Proteste simili erano accadute all’inizio del mese alla Scala di Milano, quando il Movimento studentesco della Statale aveva preso di mira la borghesia meneghina in risposta all’uccisione, da parte della polizia, di due braccianti ad Avola, nel siracusano.
“Nel cuore della Versilia rossa – commenta Provvisionato – stavano nascendo formazioni di estrema destra pronte ad armarsi e a passare al contrattacco”. Rispondere cioè ai gruppi dell’estrema sinistra.
Pochi mesi più tardi, dalla bomba milanese alla Banca Nazionale dell’Agricoltura del dicembre di quel ‘69, l’Italia sarebbe sprofondata nel decennio di piombo. “Se la strage di piazza Fontana è il primo approdo della strategia della tensione – si chiede Provvisionato – è ipotizzabile che il caso Lavorini sia stato anche solo il molo di partenza? Esiste un filo nero che li lega assieme?”. Domande che finora non hanno ricevuto risposta.
Otto anni per una sentenza che stracciò ogni accusa ai gay
Tornando al caso Lavorini: i responsabili vennero individuati in tre ragazzi, tutti appartenenti al Fronte monarchico giovanile, l’organizzazione dei giovani sostenitori del re: Marco Baldisseri, 16 anni al momento del rapimento; Rodolfo Della Latta, quasi ventenne, militante del Movimento Sociale Italiano; Pietrino Vangioni, vent’anni, leader del Fronte viareggino. Saranno loro tre i condannati al termine del processo iniziato a gennaio del 1975 e concluso nel maggio di due anni dopo. Otto anni abbondanti per arrivare a sentenza definitiva, otto anni nei quali Baldisseri da solo cambiò versione una dozzina di volte, cercando di depistare gli inquirenti con menzogne e accuse false.
Alla fine i tre vennero condannati per omicidio preterintenzionale, secondo quanto stabilito dai giudici d’appello: condanne alleggerite di molto, più che dimezzate, rispetto al primo grado che invece li aveva reputati responsabili di omicidio volontario. Della Latta venne condannato a 11 anni e dieci mesi; Vangioni a 9 anni, Baldisseri a otto e mezzo. Tutti e tre sarebbero poi usciti dal carcere in anticipo rispetto alla scadenza.
Ancora oggi, a distanza di cinquant’anni da quel caso e dalle bugie che fecero piombare l’Italia in un grande tiro al bersaglio nei confronti di innocenti, Vangioni continua a sostenere che “non è stato un sequestro a scopo di estorsione” né “un fatto politico: è stato un fatto sessuale”, come ha raccontato recentemente al Corriere della Sera.
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