Due anni fa se ne andava Don Paolo, parroco di Campoluci (Arezzo), che prima di diventare sacerdote era stato una promessa del calcio. Un incidente gli stroncò la carriera, ma gli aprì le porte di un’altra vita
Due anni fa Don Paolo De Grandi lasciava la vita terrena, facendo le due cose che più gli piacevano: stare con gli altri e giocare a pallone. Don Paolo è morto lasciando nel dolore non solo i suoi famigliari e i molti amici ma i suoi parrocchiani di Campoluci, una piccola frazione vicina ad Arezzo. Una parrocchia che, dal giorno del suo arrivo aveva fatto crescere in modo esponenziale grazie alle sue mille idee e alla sua capacità di coinvolgere tutti, dal campione del mondo (alle sue iniziative benefiche era facile trovare due eroi del mundial ’82 come Paolo Rossi o Ciccio Graziani) al pensionato. Su un campo di calcio è andato via, mentre si divertiva con i suoi ragazzi, morendo da calciatore. Perché, prima di diventare Don Paolo, Paolo De Grandi era stato una promessa del calcio italiano: mezzala delle giovanili dell’Hellas Verona, un numero 10 classico dai piedi educati. Siamo nei primi anni ’80 ed il Verona non era una società qualsiasi, la coppia Bagnoli-Mascetti stava costruendo quella che sarebbe diventata la squadra che nel 1985 avrebbe regalato all’Italia il più bel miracolo calcistico della sua storia. Paolo De Grandi si stava affacciando al grande calcio dalla porta principale e non era irreale per lui sognare un futuro in serie A con la maglia dell’Hellas, anche se era un gran tifoso dell’Inter. Correva veloce sul campo Paolo, veloce come la macchina dove era seduto una sera, quando uno schianto terribile gli fece sfiorare la morte, spazzando via in un colpo solo i suoi sogni. Quando i medici gli dissero che non avrebbe più potuto giocare a livelli agonistici, decise che se non avrebbe potuto fare il calciatore, il pallone avrebbe fatto lo stesso parte della sua vita. Iniziò subito ad allenare dei ragazzi più giovani di lui, tra questi svezzò un certo Damiano Tommasi poco più che bambino, che, qualche anno dopo, sarebbe arrivato in nazionale. Allenare poi era forse più bello di giocare. Allenare gli permetteva di comunicare con gli altri e facendolo si stava rendendo conto che, oltre al pallone, cresceva in lui, con forza inarrestabile, la voglia di fare qualcosa per gli altri, di darsi totalmente al prossimo. Stava nascendo in lui la parola chiave della sua vita: condivisione. Non sapeva Paolo che la vita gli stava riservando un’altra sorpresa: una visione allargata e inaspettata della sua vocazione ad allenare. Dopo un viaggio come volontario a Lourdes, era l’estate del 1988, Paolo, da poco maggiorenne, conobbe Don Gino. Paolo era credente e praticante e si confessava abitualmente, ma quella con Don Gino fu “La confessione”. Paolo tirò fuori tutto quello che aveva dentro, tutti i dubbi e le domande che abitavano dentro un ragazzo neppure maggiorenne a cui la vita aveva già dato e tolto tanto. Dopo quel viaggio e quella confessione e dopo una missione in Bolivia, dove toccò con mano la povertà, Paolo non ebbe più dubbi ed entrò così in seminario. Dopo un periodo iniziale in un seminario nei pressi di Verona, Paolo venne trasferito in un altro istituto religioso ad Arezzo, dove conobbe un altro uomo fondamentale per la sua crescita spirituale: l’allora Vescovo Gualtiero Bassetti, il futuro cardinale e attuale presidente della Conferenza Episcopale Italiana. Bassetti, all’epoca Vescovo di Arezzo, riconobbe in quel giovane seminarista delle qualità rare e aiutò Don Paolo a tirarle fuori, seguendolo e consigliandolo nel difficile percorso che un giovane incontra prima di diventare sacerdote. Fu proprio il vescovo Bassetti, ad assegnare a Don Paolo, nel 2005 quando venne ordinato sacerdote, la parrocchia di Campoluci, una piccola frazione di Arezzo. Campoluci era il posto ideale per mettere alla prova Don Paolo ed esaltare la sua voglia di mettersi in gioco per gli altri. Campoluci diventò il laboratorio di Don Paolo. Quello che Don Paolo ha fatto in sedici anni di sacerdozio a Campoluci lascia ancora increduli i suoi parrocchiani e chi ha avuto la fortuna di conoscerlo. La giornata di Don Paolo non sembrava composta da 24 ore, tante e quali erano le attività nelle quali era coinvolto. Creava e portava a compimento progetti e iniziative, ma era sempre presente per i suoi fedeli. Trascinava la sua comunità, trasformando una piccola parrocchia in un centro di aggregazione per giovani e uomini di tutte le età con il calcio come password per aprire il cuore e la passione della gente. Dove prima c’erano solo delle erbacce, Don Paolo fece costruire prima un campo di calcio, poi uno di pallavolo e un tendone per accogliere e organizzare feste e incontri.
E proprio durante una di queste feste, nel corso di una partita in mezzo alla sua gente, Don Paolo se ne andò su un campo di calcio, giocando a pallone.
Ma, in realtà, Don Paolo non è andato via. Se andate a Campoluci, fermatevi a osservare la parrocchia e la sua gente, Don Paolo vive ancora con loro e da loro è ricordato ogni anno con un memorial dove si scontrano vecchie glorie del Verona e squadre locali, giovani e meno giovani, portando, come voleva Don Paolo, il messaggio del Vangelo col pallone tra i piedi.