Franco Pelella sostiene che è il gesto delle corna ad avvalorare l’intento offensivo di Bossi, non tanto il “terùn” riferito a Napolitano nel corso di un comizio del 2011. Ma il gesto delle corna è “apotropaico” e di uso comune, come certe parole
Riceviamo e pubblichiamo:
“Vittorio Sgarbi ha difeso Umberto Bossi, condannato dalla Corte di Cassazione per vilipendio al capo dello Stato ad un anno e 15 giorni di reclusione per aver definito “terrone” Giorgio Napolitano e avergli fatto il gesto delle corna durante un comizio del Carroccio svoltosi ad Albino, nella bergamasca, il 29 dicembre 2011. Secondo Sgarbi “Terrone (e tanto meno l’affettuoso terun) non è un’offesa. Ma un’indicazione geografica, territoriale”(Quel terrone di Napolitano; Il Giornale, 12/10/2018). Anche il costituzionalista Michele Ainis ha scritto che la condanna di Bossi è esagerata dato che “terun, detto da un terun, non è proprio un’ingiuria sanguinosa” (Benvenuti al mercatino dei diritti; La Repubblica, 13/10/2018). Secondo me, invece, la condanna di Bossi non è esagerata perché il suo intento offensivo era evidente non tanto per aver definito terrone Napolitano (effettivamente un’ingiuria non sanguinosa) quanto perché alla parola “terrone” egli accompagnò il gesto delle corna.
Cordiali saluti
Franco Pelella – Pagani (SA) (francopelella.blogfree.net)
Caro Pelella, i linguisti più autorevoli e la stessa Accademia della Crusca affermano che quando un termine, che può piacere o non piacere ed essere magari “etimologicamente scorretto”, diventa di uso comune, dopo un tempo ragionevole deve entrare a far parte di una lingua. Lo stesso si può dire di un gesto, sia pure non elegantissimo, come quello delle corna, ma talmente comune che nessuno -crediamo- si scomponga più di tanto quando lo vede. E scagli la prima pietra chi non l’ha mai fatto. Aggiungiamo che ha una valenza apotropaica antichissima come “scaccia mali” e in un eventuale “gestuario” italiano entrerebbe subito a pieno titolo. Il problema, secondo noi, è un altro: l’articolo 278 del codice penale, la norma “sacrale” che affibbia da uno a cinque anni di reclusione a chi offende “l’onore e il prestigio” del presidente della Repubblica, qualcosa di così opinabile (anche secondo la giurisprudenza in materia), che, in sostanza, pare attingere al diritto divino. Riteniamo che sarebbe più che sufficiente applicare anche ai rappresentanti delle istituzioni la normativa che difende qualsiasi cittadino dalla diffamazione, secondo le medesime istanze e possibilità di difesa dall’espressione offensiva (pubblica, a mezzo stampa ecc.) dei comuni mortali. Detto ciò, abbiamo qualche dubbio che Mattarella concederà la grazia in questione. B.S.