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Asinerie incredibili sulla I Guerra mondiale: Diaz che dice “Addo c..o sta Vittorio Veneto?”

Intanto la città si chiamava Vittorio e basta, denominazione data nel 1866 unendo gli antichi comuni di Ceneda e Serravalle. Soltanto nel 1923 con regio Decreto 22 luglio nacque l’odierna Vittorio Veneto

Poi d’accordo sul linguaggio da caserma, ma che tutto il Paese nel 1918 si domandasse “Addo c… sta Vittorio Veneto” denota quanto meno ignoranza collettiva o diffuse doti paragnostiche. E comunque l’aggettivo “Veneto” iniziò a diffondersi solo dopo la vittoria del Piave.

Il Messaggero, Pasquale Chessa

«Ma sto’ Vittorio Veneto addo c… sta?» avrebbe mormorato Armando Diaz mentre cercava sulle carte topografiche la città della Vittoria. Quattro anni di guerra, una nuova guerra, feroce e moderna come non se ne erano mai viste, aveva allontanato gli stati maggiori dalle prime linee. E adesso che doveva andare a firmare l’ armistizio, anche lui, il comandate in capo, si faceva la domanda che era sulla bocca dell’ intero paese.

Già, perché quella Vittoria italiana così dirompente nessuno se l’ aspettava. Nessuno si aspettava la fine della guerra. Ma che cosa era successo, allora.

 

IL TENTATIVO Torniamo ai primi mesi del 1918. In Italia, l’ esercito dell’ arciduca Giuseppe, comandante del gruppo di armate del Tirolo, si sente così forte da tentare una nuova Caporetto: il 12 giugno l’ esercito austroungarico sferra una devastante offensiva su tutto il fronte italiano, dagli altipiani al mare, con la certezza di sfondare sulla pianura padana e arrivare «Nach Mailand», fino a Milano. Ma Diaz non si fa cogliere di sorpresa.

IL PIANO Fin da quando aveva sostituito al comando dell’ esercito italiano il generale Luigi Cadorna, colpevole della sconfitta a Caporetto, il 24 ottobre del 1917, il generale Armando Diaz, napoletano con origini spagnole, si era preparato alla riscossa. Soprattutto aveva capito che bisognava migliorare la condizione umana dei fanti, far nascere un nuovo patriottismo fra quelle truppe di piemontesi e sardi, napoletani e calabresi, toscani e siciliani che proprio dentro quelle trincee stavano imparando a diventare italiani. Serviva ancora un po’ di tempo. Diaz infatti pensava che la guerra non sarebbe potuta finire prima della primavera del 1919. Invece, il presidente del consiglio Emanuele Orlando, l’ 11 ottobre aveva convocato il Comando Supremo: pretende una vittoria!

 

L’ ATTACCO Seppur recalcitrante Diaz prepara una nuova strategia: concentrare l’ attacco su un unico punto, distraendo il nemico con una manovra diversiva. La battaglia cruciale sarà sul Piave. L’ obbiettivo Vittorio Veneto, sede del comando della Sesta Armata austroungarica. Il piano diramato il 22 ottobre prevede però che si cominci sul Monte Grappa, il massiccio che fa da baluardo naturale fra il fronte e la pianura veneta. È stata scelta anche la data, una scommessa con un forte significato simbolico: il 24 ottobre, anniversario di Caporetto.

Ed ecco come è andata. Alle 3 del mattino con un nutrito fuoco di artiglieria comincia la Seconda battaglia del Grappa. Sono 75 mila i fanti della IV Armata che escono dalle trincee con l’ ordine di spaccare in due l’ esercito austriaco, tagliando le comunicazioni fra il Trentino e il Piave, lasciando la VI armata nemica senza nessuna possibilità di difesa. Non funziona però. Anzi, si teme un fallimento del piano di Diaz. Fra attacchi e contrattacchi ben presto si combatte all’ arma bianca. Ma alla fine i soldatini del Grappa seppur stremati, hanno la meglio: esattamente alla mezzanotte del 30 aprile gli austriaci sloggiano. Adesso la Vittoria è a portata di mano.

 

Intanto Sul Piave piove la notte del 24 ottobre. La piena monta alla velocità di due metri e mezzo. Saltano i ponti e le passerelle.

Le barche scompaiono nel buio. Il fuoco martellante degli austriaci decima gli italiani. Il 27 ottobre un gruppo di Arditi, le truppe speciali dell’ esercito italiano, nella notte fonda riescono a passare sull’ altra sponda, riescono a costruire un ponte e a far passare una brigata, un reggimento e un gruppo di artiglieria. Ma ancora il 28 la strategia italiana sembra destinata al fallimento. Si preparano i piani di emergenza. Poi arriva il 29. La piena perde di intensità.

Le armate italiane riescono a passare il Piave. Le truppe ungheresi colte di sorpresa cedono di schianto. Per gli austriaci è la rotta. La sera del 29 Vittorio Veneto viene liberata. Il 30 tocca a Sacile. Il 31 è la volta di Feltre. Per Trento e Trieste bisogna aspettare il 3 novembre. Intanto a Villa Giusti è arrivato Armando Diaz per trattare l’ armistizio. Si firma il 3 novembre. Si fissa la fine delle ostilità alle 15,30 del 4 novembre. È il giorno della Vittoria. L’ Italia raggiunge il confine del Brennero, che era stato lo scopo dell’ intera guerra.

L’ ANATEMA Dieci giorni prima, in perfetta coincidenza con il 24 ottobre, Gabriele D’ Annunzio aveva lanciato l’ anatema della «Vittoria mutilata» con un lungo articolo sul Corriere della Sera in forma di poema. Giuseppe Prezzolini, grande organizzatore culturale, nemico dell’ italietta giolittiana, amico di Mussolini ma non fascista, in un suo celebre pamphlet irrideva contro la Vittoria con un luciferino paradosso: «Caporetto è stata una vittoria, e Vittorio Veneto una sconfitta per l’ Italia». E spiegava: «è una ritirata che abbiamo disordinato e confuso, non una battaglia che abbiamo vinto».

Perdere vincendo: l’ Italia avrebbe vissuto la Vittoria da paese sconfitto, con conseguenze sul carattere politico degli italiani che riverberano fino a oggi.

 

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