In occasione dell’uscita del libro, è in corso un tour di conferenze in varie città d’Italia: Bassano del Grappa (Palazzo Roberti, 14 giugno), Firenze (Casa Dante, Società delle Belle Arti, Circolo degli Artisti, 18 giugno), Massa (MUG Museo Ugo Guidi – Palazzo Vescovile, 21 giugno), Villa di Bivigliano (28 giugno), Venezia (Ca’ Sagredo, 6 luglio), Roma (Circolo degli Esteri, 19 luglio).
Si pensa che i classici siano opere immortali, ma se si guarda la storia delle civiltà, ciò che si constata è che la caratteristica più inesorabile delle opere umane è proprio la loro mortalità.
Contrariamente alla vulgata comune, ben sintetizzata dalla celebre frase di Italo Calvino, ovvero che il classico è un’opera “che non ha mai finito di dire quello che deve dire”, il libro dello storico dell’arte Luca Nannipieri mette a fuoco come l’universalità e l’immortalità siano due grandi equivoci intorno alle opere degli uomini.
Confrontandosi con il pensiero di alcuni tra coloro che hanno riflettuto sulla durevolezza o meno del segno umano, da Eraclito a Oscar Wilde, da Walter Benjamin a Umberto Eco, da Georg Simmel a Claude Lévi-Strauss, e spaziando in varie categorie d’espressione, dall’arte alla letteratura, dall’architettura alla moda, dalla cucina alla toponomastica, il saggio documenta come cercare segni universali e atemporali sia un bisogno congenito nell’uomo: ma la storia, il trascorrere delle epoche, la diversità dei popoli, delle culture, delle tradizioni, dei conflitti, degli interessi non permettono l’invarianza di tali segni, che infatti mutano: le statue dell’antichità, ad esempio, che oggi si considerano classiche e imperiture, dalla Venere di Milo al Laocoonte, alla Grande Sfinge egizia di Giza, hanno passato secoli sottoterra o sepolte dalla polvere, prima di essere riscoperte, e nulla dice che non possano essere ancora nuovamente interrate come lo sono state per lungo tempo.
Il Partenone di Atene, che una parte dell’Occidente considera intoccabile patrimonio dell’umanità, ha mutato costantemente le sue forme nei secoli, divenendo tempio, chiesa, moschea, magazzino, rovina, spazio musealizzato. La Gioconda di Leonardo da Vinci che oggi una parte dell’umanità considera l’emblema stesso del genio umano, è stata un lavoro conosciuto da un numero assai esiguo di persone fino al suo furto clamoroso del 1911, che l’ha iconizzata, e non è detto che, cambiando le dinamiche di forza tra i paesi emergenti nel mondo, la sua icona permanga immutata. La storia racconta che può conoscere seppellimenti, esattamente come le cosiddette meraviglie del mondo antico, delle quali sopravvive soltanto la Piramide di Cheope, mentre le altre sono andate perdute.
Esistono soltanto i classici temporanei che, come pietre miliari, si stabilizzano su strade chiamate canoni, ma il tempo, la geografia e le determinazioni dei popoli portano inevitabilmente a seppellire certe pietre, certe strade, e a farne sopravanzare e costruire altre. Queste opere, queste strade seppellite sono dunque morte? No: a differenza dei corpi biologici che nascono e poi trovano sepoltura, l’impermanenza dei classici non dimostra la loro morte, ma soltanto la loro transitorietà. Tutto può diventare un classico e poi smettere di esserlo: dalle statue antiche alla minigonna, da certi fumetti a taluni luoghi che, pur non avendo nessuna intenzione all’origine di sopravvivere al tempo, sono diventati classici temporanei a seguito di eventi extra-ordinari, spesso drammatici, che li hanno resi tali, come ad esempio Auschwitz, la cupola del palazzetto della prefettura di Hiroshima, o la torre idrica di Vukovar in Croazia, simbolo della guerra jugoslava.
La possibilità è infatti il grande motore, sempre agente e attivo nella mente degli uomini, che spegne o riattiva la fortuna e la caduta delle loro opere.