ROMA – Educare significa plasmare, modellare l’indole di un individuo secondo un disegno prestabilito, quasi “cera molle” tra le mani di un artigiano, oppure lasciarlo libero di svilupparsi secondo la propria natura, come una pianta frondosa? Può un incontro influenzare una persona a tal punto da renderla estranea alla famiglia in cui è cresciuta? E ancora: esiste il libero arbitrio oppure è il destino a decidere per noi? Questi e altri interrogativi solleva il libro di Anna Maria Anzini, “Il destino decide per te”, un memoir (disponibile anche in ebook) che ripercorre in undici capitoli un’amara vicenda realmente accaduta. Il libro, impreziosito dalla prefazione del noto giornalista televisivo Carmelo Abbate, offre all’autrice l’occasione di raccontare un pezzo importante della sua vita e di riflettere sulle relazioni genitori-figli, sulla maternità, sull’esperienza dell’adozione, sulle difficoltà e sulle gioie che ne derivano, affinché altri genitori possano metterle a frutto.
Anna Maria e il marito Maurizio Persiani sono due affermati immobiliaristi della Capitale. Nel 2007, dopo una gravidanza extrauterina e diversi tentativi non riusciti di concepimento mediante la fecondazione assistita, la coppia decide di ricorrere all’adozione per coronare il sogno di diventare genitori. Ma il percorso burocratico si rivela lungo e irto di ostacoli. Assomiglia a «un labirinto fatto di analisi del sangue, per accertare che fossimo sani, di presentazione di documenti reddituali e un alloggio adatto, per dimostrare di essere solidi». Ancor più arduo il percorso psicologico. «Per due anni – scrive – ci siamo sottoposti a test, terapie, abbiamo affrontato percorsi individuali e di gruppo. Abbiamo seguito corsi con altre coppie, alcune sono arrivate con noi fino alla fine, altre hanno gettato la spugna, sfiancate dalla difficoltà e dalle domande. […] Saremmo stati pronti a crescere un bambino malato? Ad accogliere un bambino già cresciuto in condizioni difficoltose? E poi la domanda più importante, quella più reale, più vera: ve la sentite di curare la ferita più profonda di un bambino, quella lasciata dall’abbandono?»
Alla fine, la coppia decide di cambiare percorso e sceglie la via dell’adozione internazionale. Tramite i canali della Comunità di Sant’Egidio, Anna Maria e Maurizio riescono ad adottare una bimba cambogiana di 8 anni, che chiamano Sara. L’autrice tratteggia efficacemente la gioia dell’attesa, le emozioni dei neo-genitori, il clima di amore, affetti e attenzioni che circondano la bambina nella nuova famiglia, il miracolo della crescita, il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. La vita insieme è divertente e complicata al tempo stesso. Anna Maria e Maurizio imparano giorno dopo giorno quanto sia difficile il “mestiere” di genitori. La bimba dallo sguardo malinconico diventa un’adolescente ribelle prima e una ragazza apatica poi. Per i genitori, vederla consumare le ore e i giorni in una vita piatta e senza uno scopo, senza studiare o applicarsi nello sport, incurante di costruirsi un futuro e divenire autonoma, annullata da una relazione d’amore con un ragazzo impulsivo e possessivo, è qualcosa di disperante e drammatico. Ma è proprio quella relazione a lungo contrastata che spinge la giovane a innalzare un muro di incomunicabilità verso i genitori adottivi. Un muro costruito, giorno dopo giorno, con mattoni fatti di silenzi e cementato con la malta dell’indifferenza. Il destino, insomma, sembra voler negare per vie impreviste quella genitorialità che Anna Maria e Maurizio hanno ricercato con forza e determinazione. Una frase di Maurizio condensa il dramma della vicenda: «I sacrifici che facciamo per i figli sono a fondo perduto, in qualche modo glieli dobbiamo. Non hanno chiesto loro di venire al mondo. Né di essere adottati.»
Il finale lascia l’amaro in bocca. Sara, che dopo il compimento del diciottesimo anno di età è andata a vivere con il fidanzato e ha chiuso i rapporti con la famiglia, denuncia i genitori per atti gravissimi, non meglio precisati, chiedendo loro un risarcimento economico. La vicenda giudiziaria, tuttora in corso, impone la sospensione di qualunque giudizio. L’ultimo capitolo è una lettera aperta alla figlia: una promessa d’amore rinnovata, una mano tesa in segno di pace e di aiuto.