Festival della Fotografia Etica a Lodi: gli esseri umani e non umani sono tutti parte di un globo dilaniato dalle guerre e dai soprusi: quello che emerge in questa carrellata di visi e paesaggi è un mondo in affanno.
(Terra Nuova)
Successo per la nona edizione del Festival della fotografia etica che si è tenuto nei giorni scorsi a Lodi. L’evento, ideato e realizzato dal Gruppo Fotografico Progetto Immagine con il supporto e il patrocinio di numerose istituzioni locali e nazionali, è nato per comunicare attraverso la fotografia temi e valori etici, raccontando con le immagini quello che succede nel mondo.
L’etica sembra l’obiettivo più che il punto di partenza. Questo il primo pensiero che balzella alla mente di chi, più o meno appassionato di fotografia, ha preso parte alle tre settimane di Festival che ha riempito sale ed edifici storici del centro di Lodi durante quello che è ormai diventato un appuntamento consolidato sul territorio e che sviluppa in parallelo un “fuori festival”, la rassegna fotografica OFF disseminata in negozi e spazi di tutta la città.
Esseri umani e non umani sono tutti parte di un globo dilaniato dalle guerre e dai soprusi: quello che emerge in questa carrellata di visi, paesaggi ed edifici, tra colori e scatti in bianco e nero, è un mondo in affanno. Ne è un esempio il progetto intitolato “Il prezzo della vanità” di Paolo Marchetti, fotografo indipendente che vive a Roma e che ha raccontato con i suoi scatti il prezzo che la moda fa pagare agli animali. Quattro i capitoli del suo lavoro: dall’allevamento intensivo di coccodrilli in Colombia, all’allevamento di visoni in Polonia a quello degli struzzi e dei caimani in Thailandia.
Attento osservatore, fotografo che ha bussato alla porta degli allevamenti entrando in punta di piedi in luoghi di sofferenza e di morte, Marchetti ha raccontato anche le attività lucrative della concia documentando il surreale mondo dell’alta moda fotografando le passerelle.
Simbolo di un diffuso bisogno sociale, la necessità di essere notati, visti e piaciuti, la passerella, dopo la cruda carrellata di scatti proposta da Marchetti, si trasforma in un luogo cupo e macabro. “Questo lavoro cerca di raccontareil sacrificio nascosto che sta dietro agli spietati lavori dell’alta moda e le sue tendenze culturali, dominate da duri canoni estetici. Se è vero che si sa abbastanza delle pratiche legate agli allevamenti e alla logica industriale di ottenere la massima produttività al minor costo possibile utilizzando il minimo spazio, è vero anche che si conosce ben poco dei processi legati all’allevamento intensivo in relazione all’enorme business delle pelli di animale destinate ai mercati mondiali dell’alta moda” ha spiegato Marchetti.
Le immagini sono esaustive nella loro dura rappresentazione: visoni in gabbia, struzzi appesi senza vita come panni al sole, caimani scuoiati e coccodrilli esanimi. “I visoni nascono e crescono all’interno della loro gabbia, uno spazio di pochi centimetri che sin da piccoli condividono in quattro o cinque animali passando un’intera vita senza mai toccare il terreno, pronti ad essere sacrificati per la produzione di pellicce per i mercati mondiali. Questo succede nello stabilimento polacco vicino a Grodzisk che ho visitato nel 2014, ma chissà in quante altre parti del mondo. Una sorte analoga hanno gli struzzi dell’allevamento “Malai farm” vicino a Bangkok, nella provincia di Ratchaburi. I pulcini vengono tenuti lontani dai genitori molto presto perché inizino l’alimentazione adeguata per poi essere torturati e uccisi per la produzione di borse di lusso”.
Negli ultimi anni il settore delle pellicce ha subito una grossa rivoluzione che ha cambiato i mercati: il 2012-2013 è stato l’anno che ha segnato un momento significativo nella storia dell’industria di pellicce registrando un vero e proprio boom di richieste.
Se come diceva Mahatma Gandhi, La civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta gli animali, ecco presto spiegate le fotografie che raccontano le guerre e le sofferenze umane: da quella dell’Arabia Saudita in Yemen, alla guerra dei Balcani fino agli scatti di Antonio Ferraroni con il suo reportage fotografico sull’isola di Java, in Indonesia, dove da oltre 40 anni circa 400 minatori si calano ogni giorno tra i fumi tossici del vulcano attivo Ljen per estrarre lo zolfo da una grande miniera all’interno del cratere.
Il lavoro disumano tra gas nocivi ed esalazioni asfissianti, il volto scuro e fuligginoso dei minatori con la loro vita destinata in media a non andare oltre i 50 anni, la polvere e il sudore; insomma, sembra di sentirseli addosso. Ferraroni racconta anche la resistenza dei minatori alla costruzione di una teleferica che potrebbe trasferire più velocemente le lastre di zolfo da una parte all’altra risparmiando un po’ la fatica. Eppure loro preferiscono lavorare a 6 euro al giorno in queste condizioni perché ciò comporta una paga superiore alla media che consente di avere più garanzie sulla sopravvivenza dei propri figli.
Lo spettatore, in tutto il percorso del Festival, è stato sollecitato, punzecchiato e pungolato a riflettere attraverso le immagini. E se la storia dei Rohingya colpisce per i tanti bambini e anziani costretti a fuggire e a guadare fiumi anche sotto le piogge torrenziali pur di salvarsi la pelle dalle persecuzioni birmane, dall’altro non lasciano meno indifferenti gli scatti premonitori in bianco e nero del ponte Morandi di Genova ritratto in tempi non sospetti dal fotografo Michele Guyot Bourg. “Vivere sotto una cupa minaccia” è il lavoro fotografico con cui l’autore tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 mise in atto per documentare la vita che scorreva vicino e sotto i viadotti che attraversavano Genova, la sua città. Un progetto che ha richiesto ben 4 anni di lavoro e che oggi tornano tragicamente vicini in occasione del crollo del ponte che lo scorso 14 agosto ha colpito la città di Genova mietendo oltre 40 vittime.
Con 130 fotografi coinvolti, oltre 40 incontri nel corso del mese, il Festival della Fotografia etica si ripropone di tornare l’anno prossimo con una edizione che, come hanno spiegato gli organizzatori Alberto Prina e Aldo Mendichi, oltre a “Diffondere sempre più il linguaggio fotografico e la sensibilità culturale che ne consegue tra i non addetti ai lavori, punterà a valorizzare sempre attraverso le immagini la multiculturalità e l’integrazione”.