In una sorta di Antologia di Spoon River, Antonello Mangano raccoglie come in un’inchiesta e racconta come in un romanzo, le storie (vere) di braccianti (migranti e non, italiani e stranieri, donne e uomini) che, sia nel sud che nel nord Italia, sono morti a causa del loro lavoro.
Se una volta morti si diventa tutti uguali, qui lo si è già nel morire. Un’antologia di vite oppresse dal sistema del lavoro agricolo italiano che, in queste pagine, rivelano in filigrana la società italiana: il razzismo diffuso, l’economia tribale di imprenditori improvvisati e onnipotenti. Sono storie che meritano di essere ricordate affinché tutto questo non si ripeta.
Adnad Siddique, morto per aver tentato, invano, di denunciare il caporalato nel sud della Sicilia; Jerri Essan Maslo, morto perché non riconosciuto dallo stato italiano; Soumalia Sacko, morto anch’egli cercando di sopravvivere dopo che gli era stata negata la richiesta di asilo; Becky Moses, bruciata viva nel ghetto dove era stata relegata, Ioan Puscasu, la cui morte, avvenuta nei pressi della serra in cui lavorava in nero, vicino a Torino, è stata occultata dai suoi datori di lavoro; Mamadou Sare, morto cercando, ingenuamente, di procurarsi del cibo da un campo per sopravvivere; Mohamed Abdullah, raccoglitore di pomodori in Salento, morto perché il caldo e la fatica avevano stremato fino a tal punto il suo corpo; Paola Clemente, italiana, morta distrutta da una vita di sfruttamento, e tanti altri.
«Un libro come questo è a rischio manicheismo. Da un lato padroni feroci, dall’altro migranti vittime. La realtà è ovviamente più complicata, gli agricoltori di queste storie non sono rappresentanti della categoria. Ma gli spunti che emergono sono molto interessanti
Per prima cosa sono persone anziane. Alcuni sono ricchi, altri galleggiano come possono. Tutti hanno in comune una vita nel loro piccolo mondo isolato. Non si considerano degli sfruttatori. Il lavoro è una religione. Timorosi delle spese e delle tasse, di fronte al cadavere di Puscasu dicono “e ora quanti soldi dobbiamo pagare?”
Come si rapportano con gli stranieri: spesso la distanza sfocia nel razzismo. Interessante pure la nozione di trasparenza che abbiamo incontrato: chi fa domande è un ficcanaso, uno che non si fa gli affari suoi: qualcuno a metà tra una spia e la Guardia di Finanza. Sono “cavoli nostri”. Ma la colpa è sempre degli altri.»