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La Storia cambia passo:”Proposta di un manifesto per l’innovazione dei saperi storici”

La Storia cambia passo "Proposta di un manifesto per l’innovazione dei saperi storici"

di Carlo Ruta (storico)

Contemporaneità e storia

Di recente si sono avute numerose prese di posizione a sostegno della storia come imprescindibile materia di studio e apprendimento, in risposta ad ambienti che ritengono si tratti una conoscenza non necessaria. Ma in questa fase, molto difficile, è opportuno che si provi ad andare oltre, ponendo al centro della discussione i caratteri, i modi d’essere e le pluralità della disciplina, i suoi metodi e i suoi fondamenti scientifici, perciò anche i suoi confini, perché meglio essa possa essere identificata e raccordata con i bisogni delle società civili. Il problema non è irrilevante, perché la percezione e la rappresentazione delle cose, del presente e del passato, sempre più oggi si presentano problematiche.

La storia, come disciplina che annota e spiega i fatti umani, elaborandone i nessi e le complessità causali, lungo il Novecento ha registrato avanzamenti significativi, in contesti anche tempestosi. Mentre l’Europa viveva nella prima metà del secolo le sue vicissitudini più tragiche, in alcuni ambienti si lavorava con slancio per ridefinire gli orizzonti disciplinari, per affinare i metodi d’indagine e per allargare i campi di studio, attraverso prestiti e scambi fecondi con altri saperi specialistici: in particolare con scienze sociali come l’antropologia, la sociologia, l’etnologia, la psicologia, la geografia e l’economia. Il caso più paradigmatico è di certo quello delle Annales, che dal 1929, sotto la direzione di Marc Bloch e Lucien Febvre, hanno impresso, dalla Francia, una trasformazione profonda alla ricerca, da cui hanno tratto motivi, con esiti spesso brillanti, diverse generazioni di studiosi. Il mondo è entrato poi in quella che Norberto Bobbio ha definito l’età dei diritti, travagliata tuttavia dal confronto geopolitico tra liberaldemocrazie e il mondo socialista, da polarizzazioni ideologiche e rinnovate tensioni sociali, percorsa infine da fenomenologie non meno condizionanti: dai soprassalti globali del neoliberismo agli exploit della telematica. Ne è derivato allora, ed è storia degli ultimi decenni, un quadro complessivo ondivago, di luci e ombre, che hanno avuto e continuano ad avere riflessi sostanziali, diretti e indiretti, sul mondo degli studi.

Nel tracciato delle esperienze del secondo Novecento, entro cui si collocano ricerche di spessore paradigmatico come quelle di Fernand Braudel e Philippe Ariès, si sono intensificati gli scambi interdisciplinari, per quanto forti siano rimasti i richiami dello specialismo più formale e caparbio. Il dibattito, resosi maggiormente fluido, ha prodotto una storia arricchita, per metodologie e contenuti, che è riuscita a investigare con cura speciale il terreno delle culture, e delle mentalità in particolare. Lo scandaglio delle epoche umane non è immune tuttavia, per la posizione che occupa, da influenze in grado di pregiudicarne anche i risultati, l’autonomia e il rigore metodologico. E tanto più i rischi sono manifesti in questi tempi, a causa di un clima che, per l’aumento delle disuguaglianze, la precarietà degli equilibri internazionali e la crescita del fenomeno immigratorio dalle aree disagiate a quelle più ricche, a livello globale va deteriorandosi, sui piani anche delle risorse civili, dei diritti e, per forza di cose, delle condotte razionali.

Mentre si aggiornano in maniera più o meno dichiarata i punti di vista eurocentrici e le sicumere universaliste di un «primo mondo» che non smette di riconoscere se stesso come il presidio per antonomasia dei «valori ultimi», si alimentano infatti, in numerose parti del Globo, le chiusure iper-identitarie, il rifiuto quindi delle multiculturalità e il pregiudizio etnico. Si tratta, a ben vedere, di fenomeni implosivi e dissociativi, che si generano nel vivo delle società e delle culture in maniera quasi inerziale, anche in paesi che lungo il Novecento hanno elaborato in maniera matura e relativamente aperta il «trauma» della decolonizzazione. Con l’ausilio di ideologie su misura, avanzano in definitiva logiche di risentimento e paura, che portano ancora a concepire il portatore di differenze come antagonista e, si potrebbe dire, come «ladro di risorse». Nell’ordine reale delle cose, sembrano finire fuori campo allora le prefigurazioni più feconde del secondo Novecento, come i paradigmi della coesione internazionale pensati da Hans Kelsen, i tracciati della «società aperta» di Karl Popper e, più ancora forse, i moniti egualitari delle antropologie più brillanti, come quella del Claude Lévi-Strauss di Razze e storia.

Situazioni di crisi si manifestano, contestualmente, nel sistema delle rappresentanze e in altri gangli delle democrazie liberali, da cui tendono ad emergere nuove ibridazioni, difficili da interpretare. Il mondo della comunicazione, sempre più condizionato dal digitale e dai social, produce inoltre fenomenologie di vario segno, con effetti ancora contraddittori, di orizzontalità attive da un lato, che nei primi anni di questo secolo hanno fatto immaginare una crescita delle buone pratiche di democrazia, e di condotte manipolatorie dall’altro, che rischiano di disorientare le opinioni pubbliche, ostacolandone il travaglio critico, con l’esito anche di rendere più difficili i percorsi conoscitivi, attraverso la fabbricazione del falso. In questo orizzonte problematico, che si alimenta di radicalismi di ogni livello, la ricerca storica è investita allora da responsabilità importanti, con ricadute possibili anche di ordine civile.

Scenari che mutano

Chi opera oggi nel campo delle scienze sociali, da qualsiasi prospettiva, storica, sociologica, antropologica e così via, ha davanti a sé strade diverse. Può arroccarsi nello specialismo isolazionistico o aprirsi utilmente alle sollecitazioni, può alzare la guardia o rilanciare, autolimitarsi o progredire, oscurare un paesaggio umano o illuminarlo. Può indugiare in definitiva sulla difensiva o porsi all’altezza delle difficoltà che travagliano i paesi, operando, se lo si vuole, in maniera emblematica. Può essere ancora istruttivo, al riguardo, il dato del primo Novecento, quando la Nouvelle histoire si ritrovò a coesistere con le implosioni nichilistiche e belliciste del tempo, bilanciandole in qualche misura, oggettivamente, come un utile anticorpo. Ciò non avveniva attraverso una dialettica frontale, più o meno accentuata in senso ideologico, ma, soprattutto, per mezzo di una erogazione in profondità, sfaccettata e innovatrice, in grado, già con il solo esserci, di puntellare in quell’Europa crepuscolare il senso delle cose e di porre la conoscenza storica come presidio della razionalità. Si trattava in fondo di una ricerca schiva, che in quei frangenti maturava con discrezione in alcuni circoli universitari della Francia, ma vigorosamente attiva e feconda.

Lo studioso di questo tempo è importante che faccia i conti con quelle esperienze conoscitive e quel contatto con le cose ma deve confrontarsi con un presente che propone scenari e prospettive di ricerca differenti. Tra le scienze sociali, la storia è forse quella che oggi più viene sottoposta a critiche demolitrici, non soltanto dalla prospettiva dell’utilità didattica. Secondo i nuovi detrattori della disciplina, le vicende umane sono troppo eterogenee, vaghe e divergenti per essere trattate e spiegate con metodi di ricerca credibili. Ed è ben chiaro che in questo modo, agli sforzi di studio sostenuti nell’ultimo secolo, e ai traguardi raggiunti, si finisce per opporre, oltre che le cortine dello scientismo, il nichilismo, il vuoto unidimensionale, ideologico, che tende di fatto a delegittimare saperi stratificati e a sollecitare, dal versante degli studi, le implosioni del presente. Riaffiora, in sostanza, con nuove modalità, il timore della storia, proprio quando questa disciplina per una serie di circostanze, esterne e interne, appare nelle condizioni di accelerare il passo e produrre nuove rotture paradigmatiche. Oggi essa può disporre infatti di risorse inedite, offerte anche dai progressi impetuosi di alcuni campi tecnologici e delle scienze naturali, che stanno rivoluzionando, tra l’altro, discipline contigue come quelle archeologiche.

Nel panorama delle scienze, l’archeologia si colloca in una sorta di frontiera, che per tanti aspetti ha forgiato i suoi modi operativi e il suo carattere, anch’esso pluralistico. In alcuni contesti, come quello della New archeology, nota altrimenti come archeologia processuale, la disciplina è riconosciuta come contigua alle scienze naturali. La relazione si fa oggettiva del resto e diventa organica con l’archeometria, concentrata soprattutto sull’analisi di laboratorio, chimica, fisica e biologica dei reperti e degli ambienti naturali di provenienza. Il quadro si presenta però più ampio e sfaccettato. La ricerca archeologica, anche dalla prospettiva paletnologica, che indaga le età preistoriche, ha registrato dal secondo dopoguerra significativi momenti di crescita, derivanti appunto dall’innovazione tecnologica. I più recenti dispositivi della subacquea, le telecamere lidar, i sonar, i magnetometri e i radar per il telerilevamento, le foto satellitari, le tecniche 3D, le tomografie computerizzate e i nuovi ritrovati per la datazione dei reperti stanno mutando infatti radicalmente l’orizzonte degli studi. Se utilizzati con criterio e organicità, questi progressi possono incidere allora in maniera significativa sull’indagine pluridirezionale delle epoche umane. In sostanza, più utilmente che in passato, l’archeologia è in grado di occupare una posizione mediana, sul piano operazionale almeno, tra la disciplina storica e le scienze naturali. Essa rimane tuttavia una scienza sociale, e su questo terreno si trova ad articolare i suoi contatti più impegnativi con la storia, mentre quest’ultima è nelle condizioni e ha l’opportunità, appunto, di rimescolare le carte e di riconsiderare, tra l’altro, il problema delle fonti, che solo in parte nell’età delle semiotiche possono risolversi nei tragitti della scrittura, dai primi pittogrammi all’alfabeto.

 Superando il confine

Come scienza sociale, la storia non ha il compito di giudicare, assolvere o condannare. Essa ha l’onere di restituire senso ai fatti umani, illuminandoli, incalzandoli, esplicitandoli, attraverso il documento e il manufatto, l’oggettività naturale e le immaterialità resistenti, le culture e il loro correlarsi dialettico. Storici di grande acutezza, come Karl Lamprecht e Henri Pirenne, molto stimati dagli annalisti, soprattutto di prima generazione, adoperavano un concetto «compromettente» per definire un loro approccio alla ricerca. Essi parlavano di una storia totale, per rimarcare i modi d’essere di un’attività scientifica indiscreta, attiva su vasti orizzonti e aperta ad ogni contaminazione utile. Tutto questo, mentre evoca una stagione di scommesse, riesce a fornire allora spunti produttivi al presente. Per ridare senso alle cose e aiutare così le società a rendersi conto e a riorientarsi è necessario, evidentemente, liberare il campo da scorie, chiusure, polarizzazioni vacue e schemi ideologici in grado di deprimere l’esercizio della ricerca. Ed è quel che le storiografie più avvertite, da varie posizioni, si propongono di fare da decenni, in sintonia con gli ambiti più maturi di altre scienze sociali. Il Novecento, in questo senso, ha costituito una grande fucina, ha forgiato strumenti e incubato risorse conoscitive. Ma le fratture di questa tarda modernità sollecitano ad accelerare e cambiare passo. Ciò potrebbe essere allora la scommessa di oggi.

La ricerca del secolo scorso, impugnando il «primato» della storia politico-militare e, per dirla con gli annalisti, della narrazione événementielle, concentrata di massima su attori di rango, eventi memorabili e rigide scansioni cronologiche, ha scoperto la pluralità dei campi, inoltrandosi con impeto in territori prima trascurati, dall’economico al sacrale, dalla vita quotidiana alle mentalità, dalle tecniche al lavoro, dai sentimenti alle differenze di genere. L’ultimo Novecento ha espresso poi altri modelli, come quello di una storia globale che, solo in minima parte sul tracciato braudeliano della longue durée, si è snodata dagli anni settanta con esiti anche fecondi, che hanno portato, tra l’altro, ad una ridiscussione ad ampio raggio dei modelli eurocentrici ed occidentalisti. Con uno sguardo orientato alle fenomenologie economico-finanziarie del mondo contemporaneo, sono stati riconsiderati infatti i rapporti tra il globale e il territoriale, il Nord e il Sud, il Ponente e il Levante, che nelle opere di Immanuel Wallerstein, ad esempio, vengono ricomposti nel paradigma unificante del sistema-mondo. Ma la storia può aspirare a portarsi lungo regioni, fisiche e immateriali, più impervie e sfumate, dove diventa inevitabile il confronto con tutto ciò che, dotato di un flusso, di un moto intrinseco, sfugge a rappresentazioni univoche e cristallizzate. Può essere conferito allora altro peso a elementi di «disturbo» come il trasversale, l’ambiguo, il tortuoso, l’instabile, l’imprevedibile, il contraddittorio, l’indeterminato e l’inopportuno, che pure hanno esercitato influenze decisive sulla formazione delle epoche, sui processi di civilizzazione e perfino sulle articolazioni della razionalità umana.

In un orizzonte epocale come quello odierno, che rivendica in maniera compulsiva il massimo di agiatezza e di comfort, e che mostra tuttavia segni di affaticamento, la storia può aiutare a restituire delle logiche e un senso a quel che viene percepito come estraneo e fuori campo. Può aiutare inoltre a frequentare in maniera empatica le complessità delle cose e a orizzontarsi meglio lungo le tre prospettive che reggono, avvolgendola, l’esperienza umana: il contatto con la natura, il confronto con il mondo sociale e il rapporto con la storia, che, come dimensione del passato, in ogni persona è costume, memoria, lingua, background culturale, senso e misura del tempo, in definitiva, percezione orientata del . Se la mission più conseguente e alta della ricerca storica è allora quella di contribuire ai processi di autoanalisi delle società, attraverso prese d’atto, scoperte e atti di coscienza, si può immaginare un ripensamento emblematico e consapevole, un «patto» tra la ricerca storica e le società umane in cui siano soddisfatte determinate condizioni.

Non sempre, a ben vedere, la storia si ritrova al servizio del vincitore, come vuole un motto corrente. Essa può sostenere un ceto resistente, come si avverte, ad esempio, nella narrazione moralistica di Publio Cornelio Tacito. A volte si trova a sostenere le ragioni di un mutamento possibile, di un progresso o di un regresso, retto da attori più o meno presenti o mimetici. È naturale allora che lo studioso, in possesso di fonti, debba impiegare una discreta parte del tempo disponibile a correggere, porre in discussione, confutare tradizioni e narrazioni che grondano inevitabilmente di falsi, inverosimiglianze, artifici narrativi, interpolazioni e fraintendimenti. Ma la ricerca ha l’onere di confrontarsi con un orizzonte più ampio di sostanze resistenti: strati e sostrati fisici, accumuli dell’immaginario, strutture linguistiche, tradizioni sacrali, percorsi tecnologici, costumi, manualità e altro ancora. È opportuno allora che attraverso questo contatto polimorfo con le cose si manifestino nuovi propositi.

Potrebbe risultare fecondo intanto un confronto progressivo con le fenomenologie del pregiudizio che, declinato variamente, in senso etnico, culturale, religioso, politico, di genere, di ceto, di specie e altro ancora, attraversa le società umane. Riprendendo, in qualche misura, il filo intuitivo di autori come Walter Lippmann e, soprattutto, di Hannah Arendt che si concentrò sul totalitarismo e l’antisemitismo, la ricerca storica potrebbe assumersi il compito, fino ad oggi largamente eluso dalle scienze sociali, di spiegare il quando, il come e il perché il sospetto verso il differente, il distante e l’«alterità» possa tradursi in un pericoloso bisogno comune, conclamato e stratificato. Di concerto con l’antropologia, la psicologia, la sociologia e l’economia, essa potrebbe indagarne inoltre le condizioni per possibili movimenti inversi: dall’impulso a chiudersi all’esigenza di aprirsi. Si tratta di uno spunto evidentemente, lungo linee di raccordo, appunto, tra le ragioni scientifico-disciplinari, che potrebbero uscirne arricchite, e i bisogni di crescita civile. Operazioni del genere sono possibili tuttavia a determinate condizioni.

Una storia che sia a misura dei tempi è importante che si «sporchi le mani», che impari, dagli archeologi ad esempio, l’attitudine a cavare terra dal suolo, con pazienza, alla ricerca di strati più profondi di quel che già si conosce e alla scoperta di quel che non si conosce ancora e che è tuttavia ipotizzabile, immaginabile o «deducibile» attraverso lo studio di termini noti. Occorre una storia prudente ma audace, che si confronti senza remore con l’incerto, che dia quindi consistenza e conferisca un ruolo strategico al dubbio, allo stesso modo in cui l’epistemologia, con Karl Popper, ha conferito uno status scientifico al falsificabile. Nell’età in cui le scienze naturali, passate attraverso esperienze come quelle di Planck, Bohr e Heisenberg, potenziano il paradigma probabilistico, appare curiosa una ricerca storica che indugi troppo su schemi inarticolati, tassonomie perfette e linee ortogonali tracciate a tavolino. Occorre rendere disponibili e utilizzare, di preferenza, altri strumenti, a misura dei problemi. E l’oggetto storico, sfuggente già di suo, suggerisce, tanto più quando si è davanti a fenomenologie di forte indeterminazione, modelli decisamente duttili, che meglio possano aiutare a registrarne l’onda, il respiro epocale e le mobilità.

Negli attuali orizzonti, la storia ha bisogno in realtà di smarrirsi per ritrovarsi, di frequentare, a ritroso, strade impervie che diano però l’opportunità di riflettere con carichi di consapevolezze più spendibili e condivisibili, anche in termini di socialità attiva: tanto più quando è la stessa vicenda umana, con le sue problematicità, a richiedere una maggiore erogazione. La mobilità sfuggente dell’oggetto storico evoca poi una ulteriore mobilità, quella del punto di vista, che costituisce una buona risorsa per far progredire la conoscenza e arginare il pregiudizio. La mobilità dello sguardo, che fornisce all’osservatore una visione differenziata dell’oggetto, può aiutare lo storico a riconoscere meglio i territori non fisici, a proiettarsi nei contesti di mentalità lontane e a interagire perciò con razionalità differenti, che l’Occidente, ad esempio, stenta ancora oggi a riconoscere, se non sommariamente.

 Saperi e incontri

La storia non ha bisogno di teorie che spieghino la vicenda umana nella sua totalità e come totalità, facendone il «regno dei fini». Visioni del genere restano supponenti oltre che, come rilevava Popper, ascientifiche. In realtà, se vuole mantenere una funzione ed esercitare un’influenza utile, la storia non può distaccarsi dai suoi compiti di disciplina delle complessità e delle cause. E nel Novecento, dalle prime stagioni delle Annales, questo impegno è stato esercitato appunto con slanci pionieristici. Essa ha imparato a muoversi infatti fuori dai propri confini, dove si è incrociata tra l’altro con l’antropologia, che, per quanto non priva di remore ideologiche e di aree di subalternità, sin dalla seconda metà del XIX secolo ha conferito spessore globale agli studi su alcuni campi, come quelli delle culture e dell’organizzazione sociale. Ma è importante che oggi si proceda oltre e si cerchi di ridurre lo iato che, malgrado le mediazioni già esistenti, di cui si diceva prima, persiste negli ambiti scientifici. Si potrebbe cominciare a ripensare, in particolare, le relazioni possibili e preferibili tra la razionalità dei saperi storici, in senso lato, e quella delle scienze naturali.

Se, come si è detto, i tempi attuali suggeriscono un patto plausibile tra società e storia, si potrebbe concepire, ancora utilmente, un nuovo «contratto», tra le scienze della natura e quelle sociali. Le differenze rimangono significative, poiché le prime non hanno per oggetto l’uomo storico in continua modificazione, che è invece oggetto delle scienze sociali, mentre in queste ultime non esiste tra l’osservatore e l’oggetto osservato quel distacco che, in via generale, è consueto nelle scienze naturali. Nel mondo attuale, dove gli interessi dei sistemi rischiano di sopraffare istanze e bisogni umani essenziali, un dialogo serrato e crescente tra le scienze potrebbe risultare tuttavia emblematico. Ma se la storia, come altre discipline affini, ha buone ragioni per continuare a portarsi «fuori le mura», dall’altro versante la situazione sembra più problematica. Perché le scienze naturali, concentrate sulle loro osservazioni, i lori principî e il rigore delle loro dimostrazioni, dovrebbero «scendere a patti» con le scienze sociali, e nello specifico con la disciplina storica? È un po’ il quesito di fondo, la cui risposta, nei termini di un apologo, potrebbe essere riposta, in qualche modo, nel Diogene della tradizione antica, con la sua lanterna accesa, che usava, a suo dire, per cercare l’uomo.

I saperi storici possono aiutare in realtà le scienze naturali a non perdere di vista l’uomo, appunto, ossia la dimensione del sociale, della sostenibilità, del tempo civile, che costituiscono la condizione di base per qualsiasi progetto, anche scientifico. Per gli studiosi della natura e delle discipline logico-matematiche la storia può costituire allora una utile sponda orientativa, di tipo anche morale. Si dirà che già la poesia, la prosa letteraria, la musica, il cinema, il teatro e tutte le altre arti assolvono un tale compito, ma, diversamente da tali espressioni della creatività umana, la storia condivide con le altre discipline sociali e con le scienze naturali la ricerca delle cause, un accostamento alle cose e, ancora, delle logiche di fondo che possono convergere su un coeso orizzonte di scambi e interazioni, senza pregiudizio per le diversità e l’autonomia dei saperi.

In definitiva, possono crearsi i presupposti per nuove sintonie, mentre la storia, che da un clima più aperto trarrebbe di certo dei benefici, ha buone ragioni per progredire verso nuove esperienze paradigmatiche: dubitante ma audace, dotata di un timbro proprio ma eccedente, duttile ma resistente, istruttiva e, davanti ai fattori di crisi che colpiscono questa contemporaneità, capace di sostenere da posizioni di prima fila i processi di riequilibrio culturale.

 

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