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Luxardo, l’orgoglio zaratino sopravvissuto alle bombe e all’esodo

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Il 1 novembre 1944 i partigiani jugoslavi entrano in una Zara distrutta dai bombardamenti angloamericani. È un cumulo di macerie anche la distilleria Luxardo, che per oltre un secolo aveva fornito alle Case Reali di mezza Europa quel liquore di ciliegie marasche che Gabriele D’Annunzio aveva battezzato “sangue morlacco” nei giorni dell’impresa fiumana, durante i quali scorreva a litri nelle gole dei legionari. Dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, il maggiore dei fratelli della quarta generazione, Nicolò, presidente della locale Camera di commercio e deputato cittadino, aveva cercato riparo dalle bombe a Selve, un’isoletta del mare limitrofo, insieme alla moglie Bianca Ronzoni. Sarà lì che gli uomini di Tito li avrebbero prelevati il 30 settembre 1944, gettati in mare e percossi con i remi finché non fossero annegati. Destino condiviso in quei mesi da decine di concittadini.

Dietro le violenze commesse dagli jugoslavi sulla popolazione italiana non c’era solo il desiderio di vendetta dopo l’italianizzazione forzata dell’area imposta dal regime fascista a forza di fucilazioni e deportazioni di civili nei campi di concentramento. C’era un disegno lucido: appropriarsi delle attività produttive più importanti delle città e farne fuori i titolari per far capire alla popolazione chi fosse il nuovo padrone. Nondimeno il secondo fratello, Pietro, direttore di produzione dell’azienda, fece parte della delegazione cittadina che accolse i miliziani. Era anche lui un uomo importante. Consigliere della locale filiale della Banca d’Italia e vicepresidente di quella che, dopo l’annessione di quei territori sancita dal trattato di Rapallo del 1920, era diventata la più piccola provincia italiana, Pietro volle provvedere al passaggio di consegne con le nuove autorità. Che lo arrestarono subito.

Dopo aver fatto sfollare la famiglia in campagna, Pietro Luxardo era rimasto in città per cercare di portare avanti la produzione, vivendo in una baracca nei pressi del cimitero e arrendendosi solo una volta che i bombardamenti avevano inflitto danni irreparabili alla distilleria. Il nipote Franco racconta che, mentre gli ordigni piovevano dal cielo, l’antenato percorse il circondario in bicicletta per consegnare la liquidazione a tutti e 250 gli ormai ex dipendenti, sia italiani che slavi. 

L’onta della condanna a morte postuma

Due giorni dopo l’arresto, Pietro fu prelevato dai partigiani e di lui non si seppe più nulla. Ma è assai probabile che la sua sorte sia stata la stessa del fratello. Alcuni testimoni affermarono infatti di averlo visto salire, sotto minaccia armata, su una di quelle barche che prendevano il largo colme di prigionieri e tornavano al porto vuote. Una fine tragica alla quale si aggiunse un’ulteriore onta a guerra conclusa, quando entrambi i fratelli furono condannati a morte in contumacia per non meglio specificate “azioni contro il popolo”. 

I beni della famiglia furono confiscati. Il fratello più piccolo, Giorgio, riuscì però a fuggire in Veneto e sopravvivere e, unico superstite della quarta generazione, a rifondare l’attività di famiglia con un nuovo stabilimento a Torreglia di Padova, ancora oggi attivo, insieme al giovane nipote Nicolò III della quinta generazione. È lui ad aver raccontato l’odissea della sua famiglia in un libro “Dietro gli scogli di Zara”, pubblicato due anni fa. Per lasciare alla sesta generazione anche il testimone della memoria, e non solo di una storia aziendale di successo che dura da quasi due secoli. 

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