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Nei versi di una giovane poetessa i “Rigurgiti” di dolore sono un invito alla speranza

Pubblicata nella collana “I Diamanti della Poesia” dell’Aletti editore

Sono pregni di dolore i versi della giovane Irene Rainini, raccolti nell’opera “Rigurgiti”, pubblicata nella collana “I Diamanti della Poesia” dell’Aletti editore. Dolore per un amore perduto, per un familiare malato. Dolore di vario tipo che porta a lottare contro i propri demoni. Come fa l’autrice nella personale battaglia contro il disturbo di personalità borderline che le è stato diagnosticato. E allora questa sofferenza lascia spazio, in altre liriche, alla speranza. Ad una forza interiore che incoraggia sé stessa, ma anche il lettore. «Il titolo “Rigurgiti” – racconta Irene, classe 1990, che vive con la sua famiglia a Bottanuco, un piccolo paese in provincia di Bergamo – nasce come introduzione al libro stesso. I rigurgiti sono quelli che fanno i miei gatti quando devono sputare il pelo, quindi le mie questa mia raccolta di poesie sono i miei rigurgiti, quello che non ho mai detto o avuto il coraggio di dire ma che mi portavo dentro come un peso, una “palla di pelo”, che alla fine sono i miei mostri e i miei demoni. La scrittura è realtà, sono le mie cicatrici, i miei lividi, ma anche le mie speranze per un futuro migliore».

Il libro è un inno alla vita, con tutte le difficoltà più dure, che non fanno scorgere neppure uno spiraglio di luce, che fanno sprofondare nel baratro più profondo. Ma che, poi, fanno risalire. Perché dalla sofferenza può nascere tanta bellezza. Quando i sentimenti vengono impressi nero su bianco, vengono tirati fuori, vengono rigurgitati, appunto. «I versi sono intensi – scrive, nella Prefazione, l’attore, regista e poeta Alessandro Quasimodo, figlio del celebre Premio Nobel per la Letteratura, Salvatore Quasimodo – scanditi con un ritmo che valorizza pause, punteggiatura, parole tronche: me, te, vocaboli incisivi: scompormi, perdermi, puzzle, l’intero di me. Certo, il dolore si ripresenta e si chiama schizofrenia, promazina, malattia e farmaco emblemi della difficoltà di comunicare con gli altri, di accettare una realtà che non è mai idilliaca perché il destino del genere umano è quello di vivere per morire. La Rainini, per allontanare le ombre, gli incubi e le angosce, scopre l’importanza delle piccole cose assaporando inaspettate gioie».

Il lettore diventa protagonista di un processo evolutivo della propria anima, diventando un tutt’uno con le emozioni dell’autrice. E’ come se quello stato d’animo lo vivesse anche lui, in maniera empatica. «La guarigione – afferma l’autrice – è un processo lento e incostante, ma possibile. Come disse una cara persona al mio sesto ricovero: niente è impossibile se ci si mette cuore, mente e corpo». Ed ecco che la scrittura diventa, così, terapeutica. «Mi ricordo le nottate a trascrivere tutte le mie poesie da carta a Word con l’entusiasmo di sapere che sarebbero state pubblicate e la vita mi sembrava un po’ meno cattiva. Il libro è stato scritto tra i 17 e i 22 anni. I 17 erano gli anni del liceo e il mondo mi sembrava un po’ meno brutto di quello che è realmente. Ora che la malattia è peggiorata scrivo poesie molto più cupe e molto più tristi».

La vena artistica scorre nel sangue di Irene Rainini, appassionata di fantascienza; amante dell’arte, di Frida Khalo, per la sua profondità e intensità; della musica; ha suonato, infatti, il violoncello in un’orchestra per otto anni. Ed è l’arte che dà un senso più profondo alla sua vita, risollevandola nei momenti più bui. Un invito a non mollare mai, a non arrendersi alle difficoltà. Perché più la sofferenza è tanta, più da quella finestra buia potrà uscire una luce splendente.

Federica Grisolia

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