Il manifesto di Carlo Ruta accende il dibattito nel mondo scientifico e culturale europeo. Intervista allo storico di Flora Bonaccorso
Nella prospettiva della memoria del passato come valore che si aggiunge al presente, la storiografia riveste un ruolo fondamentale. La sua proposta di un manifesto per l’innovazione della storia quale contributo può offrire in questo circolo virtuoso?
In questa fase della contemporaneità, la storia non vive momenti facili. Viene a trovarsi troppo spesso sotto attacco, come conoscenza «inutile», e tale disistima rischia di lasciare il segno. Nulla di nuovo, in realtà. Questi radicalismi sono correnti nei momenti di crisi, quando la conoscenza del passato viene avvertita come un pericolo. È quel che è avvenuto, ad esempio, tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo Novecento, quando un certo rigetto della storia ha sedimentato culture fieramente nichilistiche, che hanno contribuito infine a generare catastrofi. Già solo per questo è importante che si prendano iniziative, che si apra una fase di riflessione diffusa, che si cerchi di aprire varchi di confronto interdisciplinare, di livello strategico. Il manifesto nasce insomma da esigenze oggettive. Si vivono tempi di crisi, il mondo di oggi è in subbuglio, lo vediamo tutti i giorni, i circoli viziosi minacciano di prevalere su quelli virtuosi. È importante allora che la ricerca storica si apra, faccia quel che le è dovuto, mettendo in campo il meglio delle proprie virtualità, intercettando in primo luogo i bisogni di conoscenza che provengono dagli ambiti sociali più maturi e responsabili.
Su questo sfondo, qual è il ruolo che lei attribuisce alla storia nel mondo attuale?
La storia è diverse cose. Prima di essere la conoscenza organizzata delle relazioni causali nei fatti umani, essa è la concatenazione stessa dei fatti, una struttura temporale e, direi, la condizione esistenziale di ogni individuo umano, come lo sono la natura e la società materiale in cui si vive, ma con delle diversità. Immaginiamola come una «casa», oppure come un orizzonte in profondità nel quale si vive immersi, che lascia infine un’anamnesi, incisa come in una «scatola nera». Non esiste persona che non possieda una propria nozione, per quanto semplificata, del passato, suo, della sua famiglia, della sua città, degli ambienti in cui ha vissuto. E questo è in fondo il punto di partenza, il sostrato, il grumo originario della conoscenza storica. La ricerca storica serve a ricordare meglio, ad allargare, a problematizzare e a rendere più utilizzabile il contenuto di tale «scatola nera». Essa non è antiquaria, né il culto del passato. Non si tratta di un invito prudente alla conservazione, come lo era ad esempio il mos majorum invocato in ambienti aristocratici della Roma repubblicana, cioè l’assimilazione dei costumi degli antenati da cui lasciarsi guidare. Nulla di tutto ciò. La storia, come conoscenza, può essere concepita ed esperita come ricerca del punto di equilibrio e di stabilità, per quanto di volta in volta provvisorio, tra quel che il passato suggerisce di utile e di progressivo in termini di consapevolezza e la necessità di scegliere, prefigurare, rischiare e portarsi oltre. Nei disagi che opprimono il presente, la storia, in sinergia con altre scienze, in una chiave anche transdisciplinare, può giocare allora una parte importante, utile a restituire senso alle cose. La conoscenza storica può suggerire modelli di vita, può educare alla complessità, raffinare il senso civico. Ma, si badi, essa può anche depistare, mistificare, traviare, confondere. Ed è qui che le cose si complicano.
Quale allora la via maestra, oggi?
Ferma restando la giusta attenzione che meritano le esperienze più feconde del Novecento, credo che alla ricerca storica serva oggi, alla luce di quel che il mondo è realmente, un impegno rinnovato a mettersi e a mettere in discussione, che porti ad una ridefinizione dei compiti, in una logica di aperture, dialoghi e orizzontalità a tutto campo. Si tratta di scandagliare territori off limits, di sporcarsi le mani quando occorre, di mobilitare il più possibile il «punto di vista», di lanciare sulle cose un pensiero «obliquo» e progressivo. E tuttavia ciò potrebbe non bastare, perché bisogna essere disposti a cedere qualcosa, a sacrificare, in maniera lungimirante, anche posizioni e privilegi. Oltre che i bacini della storia andrebbero estesi infatti, nell’accezione più piena, i laboratori e le fucine della storia. Non si può fare con pienezza «storia globale» se poi il punto di vista egemone rimane di fatto quello eurocentrico e occidentalista, dal momento che la ricerca storica che ha veramente peso egemonico insiste ad essere localizzata in un circuito ristretto di ambienti euro-atlantici. Mettersi in discussione vuol dire allora porsi all’altezza dei problemi.
In che modo?
Questa egemonia viene ovviamente da molto lontano e ha cause complesse, ma qui è il caso di soffermarci sul dato di oggi, che, davvero, non è confortante. I filtri e i piani inclinati che ancora persistono nella ricerca storica costituiscono a ben vedere un’ingessatura che, in modo anche autolesionistico, alla fine non aiuta a muoversi con sicurezza e a progredire come si vorrebbe. Urgono allora, oltre che cambi di passo, anche rinunce e mutamenti di prospettiva. Mettersi in discussione vuol dire, nello specifico, ricerca di una orizzontalità attiva, che faccia bene a tutti e che permetta alle società di conoscere meglio il mondo. Proviamo a chiederci, ad esempio, che peso reale abbiano oggi, nella ricerca «globale», le storiografie sudamericane e mesoamericane, quelle centroasiatiche, quelle centroafricane e neozelandesi, quelle scandinave e dei nativi americani. A conti fatti, ben poco. La storia, per essere globale, nel senso più dinamico del termine, è invece necessario che diventi storia di tutti, polimorfica e policentrica, sul piano organizzativo e logistico oltre che su quello dei contenuti. Mettersi in discussione vuol dire in realtà rinunciare sì a qualcosa, mettere in gioco il punto di vista che sentiamo come nostro, superiore, trascendente o perfino universale, ma per attivare infine, rivalutando nella storia la dimensione dell’ascolto e del dialogo, processi di crescita e nuove consapevolezze. Non si tratta allora di un cedimento o di un impoverimento ma, appunto, di un arricchimento lungimirante e strategico.
Quali benefici possono derivare da una storia di questo livello?
Una storia che vada in questa direzione può avere effetti importanti. Può aiutare, come si diceva, le società ad orientarsi, a rifuggire dai nichilismi e dalle chiusure iper-identitarie che infestano l’epoca. Al cospetto di criticità che arrivano a minacciare anche i processi cognitivi e logici, una storia all’altezza dei problemi, con il contributo di altri saperi, può creare argini possenti. Sul piano etnico, culturale e sociale, essa può sostenere processi di pacificazione, di coesione, di erosione progressiva del pregiudizio: un vizio umano, questo, ancora poco identificato che, da tempi molto lontani, porta a concepire l’altro, il «differente», generato dalla destrutturazione del simile, come ladro di risorse, quindi come ostacolo da abbattere. Ladri di risorse sono diventati di volta in volta, fino ai nostri giorni, il cananeo, il barbaro, il cristiano, l’ebreo, il fariseo, il filisteo, il musulmano, il protestante, il valdese, l’albigese, il selvaggio, lo straniero, il meticcio, lo zingaro, l’omosessuale, la «strega» e così via.
Come ripensare allora la storia?
Senza che venga meno il suo carattere di scienza delle complessità sociali e delle cause, al di là quindi di ogni interpretazione finalistica, la storia può occupare un posto importante nel ridisegno di una possibile costituzione del vivere. Dialogando con la biologia, essa può sostenere un recupero forte della naturalità, dell’organico, a detrimento dei grovigli tecnologici e del sintetico che hanno creato danni anche irreparabili agli ambienti e alla vita, fino a compromettere risorse fondamentali come l’aria e le acque. La storia, prodotta, narrata e bene assimilata dalle società civili, può aiutare a rallentare le frenesie del tempo iper-tecnologico e ristabilire le misure del tempo naturale e del lavoro manuale. Può ridare slancio, ancora, alla polis, alla città aperta, può rafforzare quindi le difese della democrazia e delle libertà da tutto ciò che può minacciarle. Può sollecitare, ancora, le società ad autoanalisi profonde, che le aiutino a disporre con maggiore razionalità e misura delle loro risorse.
Un’ultima domanda: cosa è avvenuto dopo l’uscita del suo Manifesto?
Come si può ben comprendere si è trattato di una scommessa, che sta andando a buon fine. E per la verità non ne sono molto sorpreso, perché i problemi che si è cercato di porre in luce, allo stato delle cose, non sono sottovalutabili. Non è stata una decisione presa dalla sera alla mattina ma frutto di una riflessione lunga, che mi ha accompagnato in questi anni di studio, su una varietà di fronti. Riflessione che è stata facilitata peraltro da una lunga serie di opportunità, di contatto e di confronto che ho avuto con una pluralità di mondi, sociali, culturali e generazionali. Adesso il dibattito è aperto. Da tutta Europa stanno arrivando adesioni e contributi scritti, che arricchiscono il documento e che usciranno tra alcune settimane a stampa. È il secondo gradino e ne seguiranno altri.