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Quando Ciano volle il suo Granducato personale

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Ottant’anni fa un’Italia che ormai si sentiva sufficientemente padrona in casa propria guatava, addentava e digeriva in un sol boccone l’Albania, regno per modo di dire governato da un re per modo di dire che così finiva suo malgrado in un Impero. Un Impero per modo di dire.

Era l’aprile del 1939, vigilia dei tremendi sconvolgimenti che un’Europa alla fine della sua centralità mondiale si apprestava a imporre a un capo e all’altro del Pianeta.

Non si creda che di semplice incidente della Storia si tratti, quell’invasione, di una bazzecola folcloristica dovuta alla vanità di un genero o alla vanagloria di un suocero.

A crederlo si farebbe grave torto non tanto al suocero e al genero, che vanitosi e vanagloriosi lo furono davvero, ma a quella cosa che scorre sotto la traccia degli eventi e che, cercando di definirla, persino un genio come Hegel non trovò di meglio se non coniare il termine quasi astruso di Spirito della Storia.

Il contrabbandiere erede di due imperi

Lo Spirito della Storia che segna il destino dell’Albania di Re Zog I (un contrabbandiere che si era fatto fare un attentato in Parlamento per proclamarsi prima Presidente della Repubblica e primo ministro, poi direttamente sovrano assoluto) scaturisce non da uno, ma addirittura da due grandi eventi, tanto grandi da far tremare le vene dei polsi. La caduta di due imperi.

Il primo era l’Impero turco, il secondo quello asburgico. Il primo decompostosi dopo una lunga malattia durata oltre un secolo, il secondo vittima della sua stessa volontà di potenza che l’aveva spinto sempre più giù, nel cuore della regione balcanica. Tanto a sud da  annettersi la Bosnia-Erzegovina, salvo scoprire a Sarajevo che un Principe serbo poteva giustiziare un Arciduca austroungarico.

In questo vuoto l’Italia aveva cercato di infilarsi subito, erede di una politica che risaliva a Venezia. O anche ai tempi di Giorgio Castriota Scanderbeg, che i suoi albanesi li aveva portati a vivere al di qua del mare, tra Portella della Ginestra, la Sila e le piane pugliesi.

Personalmente era venuto a vivere, il Castriota ammirato dai suoi stessi nemici turchi, in un palazzetto a Roma, all’ombra del Quirinale. Non sapendo che proprio in quest’ultimo Palazzo avrebbe vissuto un giorno colui che all’Albania avrebbe tolto l’indipendenza da poco riacquistata.

Zog era sovrano da un pugno di mesi che già Galeazzo Ciano gli aveva messo gli occhi addosso. Il marito di Edda Mussolini sapeva come maneggiare il quattrino, e approfittò del desiderio di Zog di dare all’Albania una struttura statale per infilarsi in ogni piega delle beghe locali, fossero esse puramente politiche o, come più spesso accadeva, tribali.

Dall’Arciduca al Granducato

Nacque un partito filoitaliano, una rete di amicizie, un cumulo di interessi non tutti confessabili. La banca nazionale era di fatto controllata, l’esercito era curato amorevolmente da ufficiali italiani, la politica estera regolata da un trattato, immancabilmente di difesa e di amicizia, con l’Italia.

Che voleva fare, il genero del Duce? A Palazzo Chigi, che all’epoca ospitava il ministero degli esteri, rispondevano sornioni: “Il Granducato di Toscana”. Ovverosia un feudo personale del figliolo del Conte Costanzo, che in quegli anni si faceva addirittura erigere sul Monteburrone in territorio labronico un mausoleo per sé ed i suoi cari. Lo si può vedere ancora, percorrendo l’Aurelia all’altezza della Torre del Calafuria, alle porte di Livorno. Neanche si trattasse delle Cappelle che i Medici si erano fatti ornare da Michelangelo a San Lorenzo.

Venne il ’39, e l’occupazione nazista di Praga. Berlino non aveva avvertito Palazzo Venezia, prima di entrare nel cuore della regione danubiano-carpatica che invece teneva impegnati i sogni italiani. Roma rispose tentando la carta dell’espansione più a sud, nei Balcani.  Senza avvertire.

Il 25 marzo Re Zog ricevette un ultimatum: consegna del Paese alle armate fasciste. In cambio di denaro, naturalmente. Ma Zog si accorse a quel punto di essere un re, ed un re non accetta denaro per rinunciare al suo regno. Al massimo, può farlo un contrabbandiere.

Rispose, quindi, con un altezzoso rifiuto. Partì l’invasione.

Le cronache parlano di un 8 aprile 1939 con quattro teste di ponte lanciate sulle coste del Paese delle Aquile, per facilitare una marcia veloce verso Tirana. Parlano anche di un’avanzata con pochi intoppi e pochi morti, meno di cento in tutto: apparentemente, un blitzkrieg che la Wehrmacht non se lo sarebbe potuto nemmeno immaginare.

La realtà è meno gloriosa. Commenta in quei giorni un alto funzionario del Ministero degli Esteri: “Se gli albanesi avessero avuto una squadra di pompieri bene addestrati avrebbero potuto bloccarci benissimo”.

Come al solito: cattiva preparazione, nessuna motivazione, tanta confusione.  

Ma cosa importa? Ciano ha il suo granducato, Mussolini ha potuto rispondere a Hitler rendendogli la pariglia ed ora la partita di sposta al Quirinale, a due passi dal palazzetto di Scanderbeg.

Il 12 aprile l’annessione è proclamata. Segue un plebiscito che sancisce la volontà del popolo albanese di stare sotto l’Italia e a quel punto Vittorio Emanuele (che come al solito si è detto dubbioso ma poi ha incamerato gli onori del successo) aggiunge alla corona reale d‘Italia e a quella imperiale d’Abissina quella, ancora una volta reale, d’Albania.

Si rivelerà essere una corona appena meno fittizia di quella, che pure il Savoia può vantare, di Re di Gerusalemme. Un anno e mezzo dopo è già tutto quasi perduto: Mussolini lancia l’invasione della Grecia ed inizia il tracollo della politica imperiale, del Duce e del Genero.

Mussolini, Vittorio Emanuele III in una copertina di Beltrame per la Domenica del Corriere (Leemage/AFP)

Ma la Storia, per l’appunto, ha il suo Spirito, e quella settimana di ottant’anni fa lascia i suoi segni, difficilmente delebili.

L’eterno ritorno dello Spirito

Così, quando il Paese delle Aquile, che si è scrollato di dosso i turchi ed i fascisti, riesce a togliersi dal groppone anche i comunisti la prima cosa che fa è partire in massa sulla rotta di Scanderbeg. Nel 1991 sbarcano sulle coste pugliesi decine di migliaia di persone. Gente povera, che cerca “Lamerica” in Italia, e non a caso spesso parla l’italiano molto bene, perché anche sotto i comunisti le antenne delle tv erano girate verso Otranto. Paolo Bonolis ha fatto più di Galeazzo Ciano.

Nella tormentata storia delle recenti migrazioni verso la Penisola quell’invasione pacifica segna il primo di una lunga serie di duri respingimenti, singoli come di massa.

Sei anni più tardi, forse per ripulirsi la coscienza dopo il naufragio di un barcone di profughi avvenuto una notte che era Venerdì Santo (per gli amanti della casistica: anche l’invasione italiana del ’39 era iniziata un venerdì santo), sulle coste albanesi tornano le navi militari italiane.

È l’Operazione Alba, voluta dal governo Prodi per stabilizzare il paese vicino, sconquassato dal caso delle piramidi finanziarie che avevano portato alla bancarotta tutti, ma proprio tutti, gli albanesi.

In questo modo il capitalismo finanziario, che in Albania fa la sua grande prova generale di quello che saranno i mutui subprime, chiude un ciclo, e ristabilisce con il successo dell’Operazione Alba l’equilibrio tra due paesi e due sponde dello stesso mare. Dove nessuno è mai veramente padrone a casa propria, e nessuno può ignorare quello che accade dall’altra parte.

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