Con la stagione fredda viene voglia di castagne: adesso che dobbiamo limitare gli spostamenti, l’ideale è prepararle in casa, al forno oppure con la speciale padella forata. Al supermercato costano circa 5-6 euro al chilo, e il prezzo aumenta se acquistiamo dei prodotti Igp, come il marrone del Mugello o la castagna di Cuneo.
Di solito si parla in modo generico di castagne, ma dovremmo distinguere castagne e marroni: le prime hanno forma più schiacciata e sono più adatte a essere bollite, i secondi, più pregiati, hanno forma bombata e sono ottimi arrostiti, perché la pellicina interna si stacca facilmente. In Italia abbiamo ben 16 prodotti Igp o Dop ricavati dal castagno: 12 varietà di castagne e marroni, due farine di castagne e due mieli di castagno. Oltre a questi, che difficilmente troviamo al supermercato, da alcuni anni sono comparsi alcuni prodotti pronti per il consumo: castagne cotte e pelate, confezionate in atmosfera protettiva, da utilizzare come snack oppure come ingredienti in cucina. Le abbiamo viste a marchio Ghisetti, Ventura, De Lucia, Noberasco, e costano da 35 a 48 euro al chilo. Ci sono anche versioni “bio” e in molti casi è indicata l’origine italiana.
L’origine è un aspetto importante, perché l’Italia è stata a lungo ai primi posti nella produzione di questi frutti che in passato rappresentavano in molte zone la principale scorta di energia per l’inverno. Ma la produzione ha cominciato a diminuire alla fine degli anni Cinquanta e ha attraversato una grave crisi negli anni 2011-2014. Così le 50mila tonnellate all’anno del 2005 sono crollate fino a circa 18 mila nel 2014, mentre le importazioni passavano da 5 mila a 38 mila tonnellate. Il crollo è stato provocato in buona parte all’invasione da parte del cinipide galligeno del castagno (Dryocosmus kuriphilus), un insetto parassita che indebolisce le piante e compromette la fruttificazione. La crisi è stata superata grazie all’introduzione dell’insetto antagonista Torymus sinensis, che si nutre delle larve del parassita, con un perfetto esempio di lotta biologica.
I dati di import/export mettono comunque in evidenzia una carenza, rispetto alla domanda, che spinge le importazioni. L’Italia è infatti al primo posto nel mondo per l’import di castagne, ed è strano notare che si trova al secondo posto per l’export. Nel 2019, le importazioni si sono attestate intorno alle 33 mila tonnellate (-10% rispetto al 2018) e le esportazioni intorno alle 14mila tonnellate (-4,4% rispetto al 2018). I nostri principali fornitori sono stati la Turchia (11.260 t), il Portogallo (7.594 t), la Spagna (5.372 t), la Grecia (4.000 t) e il Cile (1.810 t).
Qual è la situazione attuale? Abbiamo chiesto un parere a Gabriele Loris Beccaro, docente dell’Università di Torino e responsabile scientifico del Centro regionale di castanicoltura del Piemonte (vedi sito).
“Le informazioni raccolte presso i produttori parlano di una situazione variegata – dice Beccaro – il raccolto diminuisce in Calabria, in Piemonte e in Lazio mentre è in aumento in Emilia, in Campania e in Toscana. Nel complesso si stima una produzione annua di circa 40mila tonnellate, in netta ripresa rispetto alla crisi dovuta al cinipide. Non arriviamo ai livelli di produzione precedenti perché gli impianti sono ormai senescenti, sono gestiti spesso da hobbisti e la lunga crisi ha fatto venire a mancare il know-how relativo alle tecniche di rinnovamento dei castagneti.”
“In questi anni – continua Beccaro – abbiamo visto un rinnovato interesse, perché è una coltura remunerativa. I prodotti da 5-6 euro al chilo che troviamo al supermercato, molto probabilmente non sono il top della qualità, potrebbero essere varietà ibride, coltivate nel nostro Paese da alcuni decenni, meno saporite dei marroni Igp. Chi produce le varietà più pregiate di solito preferisce la vendita diretta, nei mercatini o con e-commerce, perché è più remunerativa. D’altra parte il consumatore medio di solito non distingue una varietà dall’altra e può capitare che acquisti castagne poco soddisfacenti. Il prezzo non è un indicatore affidabile perché ciò che paga di più sul mercato non è la qualità ma la pezzatura.
Nel 2019 sono state raccolte circa 40mila tonnellate di castagne e ne abbiamo importate 33mila tonnellate. Dove sono finite? Di solito sulle retine di castagne in vendita si legge origine italiana, ma qualche sospetto è lecito.
“Sempre più spesso, come Università, ci capita di ricevere campioni di castagne da analizzare – racconta Beccaro – e non è raro scoprire che nonostante l’indicazione “Italia” si tratta di prodotti provenienti dal Portogallo o dalla Turchia. L’origine si può stabilire senza grandi difficoltà con un’analisi genetica. L’Italia importa castagne perché ciò che produciamo non è sufficiente per soddisfare la domanda che comprende il consumo fresco e quello destinato all’industria per la produzione di dolci”. I dati relativi agli scambi commerciali con l’estero portano anche a ipotizzare che una parte del prodotto importato sia marchiato come italiano e rivenduto.
Cosa bisognerebbe fare per rilanciare una coltura che valorizza territori vocati, è interessante dal punto di vista paesaggistico e produce un frutto gustoso e apprezzabile?
“Ora è necessario intervenire con un approccio a due binari – dice Beccaro – da un lato bisogna reinvestire negli impianti esistenti, dall’altro sperimentare nuovi impianti in cui applicare le conoscenze messe a punto nella frutticoltura. Insomma, non più “boschi” ma frutteti. Oltre alle coltivazioni convenzionali, oggi assume importanza commercialmente strategica la produzione di castagne e marroni biologici. Questi si ottengono da 16.800 ettari certificati nel 2019, su un totale di circa 50mila ettari, principalmente in Emilia, Toscana, Piemonte e Lazio.”
È dello stesso parere Tatiana Castellotti del Crea, esperta di castanicoltura da frutto secondo cui “il rilancio della castanicoltura è un processo complesso che deve investire diversi aspetti, dal recupero dei castagneti attraverso investimenti di miglioramento colturale, alla valorizzazione delle varietà nazionali in modo da tutelare l’enorme patrimonio di biodiversità. Poi sarebbe necessario lo sviluppo di associazioni di produttori, in modo da sopperire alla frammentazione fondiaria, l’informazione dei consumatori e la promozione del consumo delle castagne e dei prodotti derivati, l’investimento in ricerca. Il cinipide – continua Castellotti –non è l’unico problema che affligge il castagno, serve anche assistenza tecnica. Interventi di così ampia portata non possono prescindere da una programmazione nazionale che guardi al settore nel suo insieme e coinvolga gli operatori nella definizione degli obiettivi e nell’attuazione delle strategie.”
FONTE: https://ilfattoalimentare.it/castagne-italiane-settore.html