Nel medioevo era chiamato il paese delle campane, perché qui si fondevano rame, stagno e bronzo per produrre strumenti finiti poi nelle chiese di tutta la regione e non solo. Oggi, invece, è noto soprattutto per la produzione di nocciole: parliamo di Tortorici, centro di seimila abitanti in provincia di Messina, da dove arriva l’ultimo nato tra i Presìdi Slow Food, la pasta reale. Si tratta di un dolce, una ricetta semplice per la cui preparazione occorrono soltanto tre ingredienti: acqua, zucchero e proprio quelle nocciole che crescono sui monti dei Nebrodi.
Questione di fede e di manualità
«Si tratta di una preparazione dalle origini antichissime, di cui abbiamo testimonianze già alla fine del Seicento» racconta Lidia Calà Scarcione, pasticcera e referente dei due produttori che attualmente aderiscono al Presidio. La storia ci riporta all’epoca in cui, a Tortorici, sorgeva il convento delle suore clarisse: come in molti altri casi, il dolce nasce infatti dalla tradizione dei conventi, dove le monache vivevano, pregavano ed erano solite preparare dolcini e biscotti. «Poi, però, con le leggi del 1866 e del 1867, il neonato Regno d’Italia confiscò i beni ecclesiastici – aggiunge Vincenzo Pruiti, referente Slow Food del Presidio della pasta reale di Tortorici – e così anche il convento della cittadina venne chiuso». Le suore, rimaste di fatto sfollate, furono accolte nelle case delle famiglie più benestanti di Tortorici, portando con sé e tramandando oralmente anche i segreti della preparazione del dolce.
Già, perché pur avendo pochissimi ingredienti, la preparazione nasconde alcune insidie: è sufficiente guardare una fotografia della pasta reale di Tortorici per cogliere le particolarità del dolce, che si presenta di forma piatta e irregolare, con un rigonfiamento nella parte centrale. «Secondo alcuni è un omaggio alla montagna, monte San Pietro, che sovrasta il paese. Per altri, invece, assomiglierebbe a una corona, e infatti era abitudine offrire le paste ai regnanti» prosegue Calà Scarcione. Ma, al di là della leggenda, rimane il fatto che quel rigonfiamento si produce durante la cottura: «In forno i dolci scoppiano – dice la referente dei produttori –. Non esiste una ricetta precisa, molto dipende da come vengono tritate le nocciole tostate: a seconda della loro finezza, la granella di nocciole assorbe più o meno acqua, quindi bisogna regolarsi con l’esperienza e la manualità». Una volta preparato l’impasto di acqua, zucchero e nocciole tritate, aiutandosi con un po’ di farina si formano delle sfere e le si lasciano riposare su un tagliere di legno per due o tre giorni, a seconda del clima e della temperatura. A quel punto si infornano e si attende che la pasta reale scoppi, facendo sciogliere lo zucchero e generando la caratteristica forma del dolce.
Sicilia uguale mandorle, ma non solo
«La Sicilia non è soltanto mandorle e dolci a base di pasta di mandorle – prosegue Pruiti –. Qui in provincia di Messina esiste una lunga tradizione legata ai noccioleti e i prodotti a base di nocciole non sono secondi alle pur eccezionali mandorle». La presenza del nocciolo, prosegue il referente Slow Food, da queste parti è testimoniata fin dal Cinquecento: «La zona in cui viviamo è montuosa e questa pianta ben si presta a questo tipo di terreno, perché ha radici fitte ma superficiali. Oltre alla morfologia del territorio, c’è anche una ragione storica che ha fatto sì che i noccioleti si diffondessero ulteriormente all’inizio del secolo scorso: l’arrivo della fillossera che decimò i vigneti. Disperati, molti contadini scelsero di piantare noccioli». Così, all’interno del Parco naturale dei Nebrodi, ancora oggi si preservano numerosi ecotipi locali di nocciole: un patrimonio di biodiversità che fa la fortuna del luogo e di chi sa valorizzare in pasticceria il frutto di queste piante.
«Le nocciole sono il frutto del nostro territorio – conclude Lidia Calà Scarcione – e la pasta reale di Tortorici, da questo punto di vista, è emblematica di quest’angolo di Sicilia». Un patrimonio che però è in pericolo: «Noto un progressivo abbandono dei noccioleti, che un tempo rappresentavano la principale fonte di sostentamento degli abitanti della zona. Oggi le piante vengono abbandonate perché qui il terreno non è pianeggiante, quindi coltivarle risulta faticoso e poco conveniente: non c’è possibilità di meccanizzare il lavoro né di avere appezzamenti particolarmente grandi. Ma l’abbandono non è privo di conseguenze: comporta che le foreste “si abbassino”; in altre parole, la vegetazione sta riconquistando aree un tempo coltivate».
Può sembrare paradossale, in un’epoca segnata dal consumo di suolo, dall’urbanizzazione selvaggia e dall’antropizzazione di habitat naturali, lamentare l’avanzata dei boschi. Eppure, anche se apparentemente controintuitivo, il fenomeno è problematico. Per secoli, infatti, l’agricoltura è stata lo strumento con cui l’uomo è entrato in rapporto con la natura, anche addomesticandola e rendendola produttiva, sempre rispettando un implicito patto: lavorare la terra per coglierne i frutti, ma tutelando l’equilibrio e la capacità di rigenerazione del suolo. Ma non può esistere equilibrio e rigenerazione né nell’abbandono né nel sovrasfruttamento, due tendenze diffuse che oggi dobbiamo invertire a livello globale. Ecco, dunque, il valore di un Presidio Slow Food e dei suoi produttori.