Usiamo quotidianamente l’olio di oliva e siamo convinti di conoscerlo, ma in realtà valutarne la qualità è tutt’altro che facile. In questi giorni sono state presentate le conclusioni di Oleum, un progetto internazionale voluto dall’Unione Europea e coordinato dall’Università di Bologna proprio con l’obiettivo di analizzare le criticità del mercato e identificare nuovi metodi di valutazione del prodotto. “ Il nostro intento – spiega la coordinatrice del progetto, Tullia Gallina Toschi dell’ateneo felsineo – è dare garanzie di qualità ai consumatori e offrire ai produttori e agli organismi di controllo procedure rapide efficaci e armonizzate”.
Proprio le tecniche utilizzate per la valutazione sono uno dei temi al centro del dibattito: “Dobbiamo uscire da un’impasse che dura da vent’anni”, spiega Pasquale Costantino che esercita la mansione di capo panel, guida cioè il gruppo di esperti chiamati a valutare le caratteristiche sensoriali che servono a definire l’olio. La procedura è utilizzata dal 1991, ossia da quando è stata adottata a livello europeo la normativa (regolamento 25/68 e aggiornamenti) che disciplina le categorie merceologica dei prodotti di frantoio. In base alle norme europee, gli oli di oliva ottenuti con metodi meccanici – frangitura, gramolazione, estrazione con centrifuga o pressa – si dividono, in base all’acidità e alle caratteristiche sensoriali in olio extravergine o vergine – a seconda della presenza o meno di difetti alla valutazione sensoriale – oppure olio lampante, letteralmente “da lampade”, non adatto per il consumo umano. Quest’ultimo può però essere raffinato con procedimenti chimico-fisici, come avviene per gli altri oli vegetali, e – se integrato con olio vergine o extravergine di oliva – è messo in vendita come semplice olio di oliva, come quello che si trova spesso nelle conserve.
Per definire la qualità dell’olio si utilizzano infatti due tipi di criteri, “quello chimico-fisico, attraverso una serie di griglie con decine di parametri diversi da analizzare attraverso metodiche da laboratorio descritte dal regolamento – spiega Costantino – e quello organolettico, con una valutazione realizzata in base al metodo definito dal Coi (Consiglio oleicolo internazionale) e gestita da un panel di esperti”. Anche in questo caso, non si tratta di una valutazione soggettiva: le caratteristiche sensoriali dell’olio sono valutate in conformità a criteri predefiniti – fruttato, amaro, piccante – e alla presenza di possibili difetti, come ad esempio il sentore di avvinato dovuto alla fermentazione di olive mature non ben conservate.
Dal punto di vista della salubrità non ci sono differenze sensibili tra i diversi prodotti, “anzi – osserva Gallina Toschi – una presenza elevata di polifenoli accentua alcune caratteristiche come l’amaro e il piccante, che purtroppo non sempre i consumatori apprezzano”. In pratica però oggi l’olio vergine – con qualche difetto dal punto di vista sensoriale – non si trova praticamente più in vendita. “Quest’olio è utilizzato nell’ambito della ristorazione e dell’industria alimentare, ma è praticamente assente nella grande distribuzione e nei negozi di prossimità dove si trovano olio di oliva, oppure olio extravergine, spesso proposto a prezzo molto contenuto”, spiega Gallina Toschi. Il risultato è che il mercato si è modificato e appiattito spostandosi sul consumo esclusivo dell’extravergine, “ossia su un prodotto che dovrebbe essere consumato prevalentemente crudo per apprezzarne le caratteristiche, e che oltre a rispettare i criteri di qualità predefiniti ha un valore aggiunto dovuto al fatto di essere sensorialmente perfetto”. È su questa categoria che hanno investito le produzioni Igp o Dop, marchi che danno una garanzia addizionale rispetto alla provenienza e alla tipicità del prodotto e che possono essere identificati attraverso il portale europeo eAmbrosia, poco noto ma accessibile a tutti.
“Dato che nell’immaginario di chi consuma c’è solo l’extravergine – prosegue Gallina Toschi – c’è stato un appiattimento che penalizza la qualità sensoriale del prodotto, spesso si cerca l’extravergine a prezzo più contenuto senza comprendere che un appiattimento del prezzo si riflette inevitabilmente sulla qualità”. Un problema dovuto alla scarsa conoscenza del prodotto: “Proprio il panel test è il tassello debole di questo mosaico”, osserva Costantino, che sottolinea la difficoltà di gestire le valutazioni sensoriali. Ogni panel è composto di otto/dodici partecipanti, non retribuiti e spesso costretti a spostarsi per realizzare i controlli, “senza contare – prosegue l’esperto – che per fare questo lavoro è necessario seguire corsi di formazione, e che c’è un limite al numero di analisi che possono fare in un giorno”. Mentre ogni anno sono avviate al consumo in Italia 480 mila tonnellate di olio, che è in genere trasportato in lotti da 30 tonnellate, la capienza delle cisterne utilizzate: “Approssimativamente dovremmo eseguire ogni anno 16 mila analisi, e in Italia esistono solo 71 panel”, ricorda Costantino.
Una situazione che inevitabilmente crea difficoltà e contenziosi, e che ora è stata resa ancora più complessa dalle difficoltà create dalla pandemia. “Quando abbiamo a che fare con un olio che è all’interno dei parametri chimico-fisici dell’extravergine, ma ne resta fuori per ragioni organolettiche, le aziende tendono a mettere in discussione la competenza del panel”, spiega Costantino. Il sistema funziona meglio per gli oli Dop e Igp, che prevedono un doppio controllo, “mentre in altri casi può succedere che i panel non siano convocati, e che quando l’olio è a posto dal punto di vista chimico-fisico questo sia considerato sufficiente dalle aziende produttrici per procedere in autonomia con l’imbottigliamento e l’etichettatura”.
La soluzione potrebbe essere quella di utilizzare per le valutazioni organolettiche dei metodi di screening, i cosiddetti nasi artificiali, “realizzati con tecniche come la gascromatografia che permettono di analizzare i composti volatili e dare quindi una conferma o una non conferma del dato sensoriale”, osserva Gallina Toschi. “In questo modo – aggiunge Costantino –sarebbe possibile per esempio risolvere eventuali discordanze tra panel”. All’interno del progetto Oleum sono stati sviluppati e validati due metodi di cromatografia ad alta risoluzione (SPME-GC/MS, SPME-GC/FID) “che potrebbero essere adottati, una volta stabiliti criteri di valutazione univoci per le caratteristiche più rilevanti” spiega Gallina Toschi, oltre a un metodo di screening (GC-IMS) che restituisce un’immagine delle caratteristiche sensoriali dell’olio. “Questi sistemi – sottolinea la docente – permetteranno di avere una pre classificazione o una controprova e semplificheranno le valutazioni dei panel”.
Resta da risolvere il problema della scarsa formazione dei consumatori, spesso incapaci di valutare le caratteristiche gustative del prodotto e quindi disposti ad acquistare olio che rispetta appena i parametri di legge ma riporta la dicitura di “extra” e costa poco: “Perché allora non preferire un olio di oliva, che dichiara quello che è e ha un costo più coerente?– chiede Gallina Toschi – Non si può produrre solo extravergine, e sia il vergine che l’olio di oliva sono prodotti validi dal punto di vista nutrizionale”. E il prezzo è un criterio valido solo fino a un certo punto: “per definire un listino ragionevole per un extravergine possiamo controllare il prezzo alla produzione verificabile in rete – osserva la docente – è evidente che un prodotto al dettaglio non può costare meno della quotazione all’ingrosso”. In linea di massima, un extravergine non dovrebbe costare meno di 9/10 euro al litro anche se ci sono oli particolari monovarietali, molto più costosi.
“Il problema è che gli oli di oliva sono ancora poco conosciuti sia dai consumatori che dagli chef, perché si tratta di un ingrediente un po’ invadente e, se di qualità, molto costoso. Mentre spesso gli oli e i grassi si utilizzano, specialmente nelle preparazioni molto elaborate, per il contributo che danno alla consistenza e alla palatabilità del piatto più che per il sapore – spiega Gallina Toschi. – Bisognerebbe tenere in casa oli diversi da usare a seconda delle diverse destinazioni, per cucinare o per il consumo a crudo”. “È vero che i panelisti non sono l’analogo dei sommelier, però per l’olio c’è la necessità di raccontare il prodotto, di descriverne le caratteristiche – conclude Costantino – Il mercato del vino ha cento anni in più di quello dell’olio, e oggi la qualità del vino è apprezzata in un modo che un secolo fa non sarebbe stato possibile. Ma c’è stato un lavoro di educazione, e l’olio è un prodotto ancora più complesso”.
FONTE: IL FATTO ALIMENTARE