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Kiwi: il segreto dei frutti che arrivano dall’altra parte del mondo

Forse non tutti sanno che l’Italia, con le sue 410 mila tonnellate annue, è il primo produttore mondiale di kiwi. Eppure, nonostante questo primato, l’importazione è pari quasi al 50% dei nostri consumi. Il frutto importato arriva prevalentemente da Nuova Zelanda e Cile che hanno le stagioni invertite rispetto alle nostre. Questo paradosso commerciale è dovuto a molteplici fattori tra cui l’aumento della richiesta di frutti fuori stagione e la crescente efficienza e diffusione di tecniche che permettono il trasporto di derrate alimentari da un continente all’altro.

In questo modo le produzioni di kiwi della Nuova Zelanda e del Cile sono entrate a far parte del paniere quotidiano del consumatore italiano. La maggior parte dei kiwi provenienti dalla Nuova Zelanda sono distribuiti da un’unica azienda, la Zespri Kiwifruit, che ha il compito di commercializzare la produzione di migliaia di coltivatori in Nuova Zelanda e nel resto del mondo.

Le problematiche che si riscontrano durante il trasporto e il lungo viaggio per arrivare sulle nostre tavole sono collegate alla vita commerciale dei frutti che potrebbero sviluppare eventuali muffe presenti sulla buccia durante la raccolta. In passato si privilegiava l’utilizzo di agrofarmaci ma alcuni studi hanno dimostrato che, nonostante la spazzolatura del frutto o varie metodiche di lavaggio con acqua o soluzioni saline, non si riusciva ad eliminate totalmente la sostanza chimica. Si è preferito quindi spostare l’attenzione della ricerca scientifica sulle fasi post-raccolta cercando di sviluppare metodiche sostenibili per l’ambiente ma allo stesso tempo economicamente vantaggiose per l’azienda. La conseguenza è stata una riduzione dell’impiego di agrofarmaci nei campi, e la scelta dell’utilizzo di container refrigerati.

La refrigerazione non è immune da problematiche, perché se non si effettuata in maniera adeguata può comunque favorire lo sviluppo di muffe resistenti alle basse temperature. Si è diffusa quindi la pratica del “curing” che consiste in una sorta pre-refrigerazione che può variare dalle 48 alle 72 ore. Dopo di che i kiwi vengono refrigerati fino a raggiungere zero gradi al cuore del frutto. Secondo i ricercatori questa tecnica favorisce alcune reazioni biochimiche all’interno che riescono a inibire lo sviluppo di microrganismi durante la refrigerazione. I meccanismi del fenomeno sono però tutti da scoprire e la tecnica deve essere ancora perfezionata.

Un altro aspetto fondamentale è la rimozione continua dell’etilene, un fitormone sintetizzato dal frutto e che ne provoca la maturazione. Per risolvere questo problema si usano assorbitori di etilene nelle celle oppure si effettua un ciclico ricambio completo d’aria, per evitare una maturazione anticipata durante la conservazione. Se la rimozione di questo gas viene effettuata in maniera ottimale la shelf-life del frutto si può estendere fino a 6 mesi. Il sistema ha diverse analogie con quello che si usa per le mele in Italia, stoccate in magazzino in attesa della vendita programmata anche dopo diversi mesi. Un’altra tecnica, però molto costosa, è l’impiego graduale dell’atmosfera modificata. Bisogna stare attenti quando si utilizza perché il kiwi può sviluppare una fitopatologia denominata “Hard Core” che provoca l’indurimento eccessivo della parte centrale bianca del frutto dovuto all’eccessiva presenza di anidride carbonica nell’aria.

Le aziende produttrici hanno inoltre svilluppato delle nuove cultivar che sono più resistenti alle muffe come ad esempio il kiwi SunGold di Zespri destinato in prevalenza alle economie asiatiche, e la “EnzaRed”, della Turner and Growers, una nuova varietà dalle sfumature rosse la cui ridotta shelf-life ne limita però il potenziale commerciale.

La prossima sfida per la ricerca scientifica sarà di comprendere appieno i parametri responsabili dei cambiamenti durante la conservazione del frutto per poter garantire al mercato una continuativa presenza di kiwi di qualità.

 

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