Dalle colline dell’astigiano a Londra, la sua rinascita supera anche il lockdown.
«In queste settimane le famiglie hanno avuto più tempo per scegliere con cura i prodotti da portare in tavola e più voglia di riscoprire antiche ricette e sperimentarne di nuove: le consegne a domicilio sono letteralmente esplose e hanno aperto una nuova via di commercializzazione per le piccolissime aziende agricole».
Il carciofo astigiano del sorì deve il suo nome ai versanti collinari esposti a sud, che in dialetto si chiamano appunto sorì. Qui si coltivano le vigne migliori, ma, nell’area dell’Astesana collinare, delimitata dal fiume Tanaro e dai torrenti Tiglione e Belbo, è anche l’habitat ideale del carciofo. È una pianta rustica che si coltiva senza l’uso di pesticidi e con una fertilizzazione organica del terreno, associata – quando possibile – all’uso di colture di copertura.
I capolini, ovoidali, allungati e senza spine, si raccolgono manualmente. Sono dolci e teneri al palato e si prestano a molteplici usi in cucina: possono essere conservati sott’olio, fritti, cucinati nei risotti, ma il consumo a crudo è quello in cui esprimono al meglio le loro caratteristiche organolettiche. Della pianta si consumano anche i gambi, le foglie e i carducci teneri e imbianchiti dall’inverno.
Il rapido declino del carciofo astigiano è avvenuto dalla seconda metà del secolo scorso, principalmente a causa della raccolta tardiva. Infatti, i capolini del carciofo astigiano arrivano sul mercato quando le varietà meridionali sono a fine stagione e i prezzi di vendita sono troppo bassi per permettere ai coltivatori una buona remunerazione. E così, per oltre 50 anni, la coltivazione del carciofo rimane una coltura marginale per il consumo familiare nei pressi delle vigne meglio esposte.