di Enzo De Fusco e Valentina Melis
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Aiutare le grandi aziende a riorganizzarsi con tre azioni: accompagnare all’uscita i lavoratori vicini alla pensione, riqualificare quelli che restano e assumere nuovo personale. È l’obiettivo del contratto di espansione, introdotto dal decreto crescita (Dl 34/2019), per il quale la circolare 16/2019 del ministero del lavoro ha fornito nei giorni scorsi le istruzioni operative.
La misura riguarda le aziende oltre mille dipendenti ed è sperimentale, per gli anni 2019 e 2020. La platea potenziale, dunque, dato il tessuto produttivo italiano, formato soprattutto da piccole e medie imprese, non è ampia: come rivela Infocamere, si tratta di 763 imprese, localizzate per la maggior parte in Lombardia (34,2%), Lazio (14,3%) ed Emilia Romagna (11,5%). I lavoratori di queste aziende sono però 2,6 milioni. In testa ai settori coinvolti ci sono la grande distribuzione – con quasi 300mila dipendenti – le banche, i servizi postali, le pulizie, i trasporti, i servizi di ristorazione.
Per finanziare gli scivoli pensionistici e gli ammortizzatori sociali legati al contratto di espansione sono stati stanziati 63,7 milioni. Se la misura non sarà rifinanziata nella prossima legge di Bilancio, però, rischia di uscire di scena.
Il confronto con l’isopensione
Per le aziende, il ricorso al contratto di espansione può presentarsi come un’alternativa alla isopensione introdotta dalla legge “Fornero” nel 2012 per favorire l’uscita dei lavoratori più anziani: quest’ultimo strumento, però, ha costi più alti per i datori, perché prevede che sia l’assegno sostitutivo della pensione, sia i relativi contributi siano interamente a carico delle aziende. Nel contratto di espansione entra invece in gioco anche lo Stato, che finanzia la Naspi (se spetta al lavoratore in uscita) e la cassa integrazione per le eventuali riduzioni di orario degli altri lavoratori.