Dalla querelle sulla riconferma, al momento congelata, del vicedirettore Luigi Federico Signorini alla complessa questione della proprietà delle riserve auree, era almeno dai tempi di Bancopoli (la serie di scandali finanziari che portò alle dimissioni del governatore Antonio Fazio) che la Banca d’Italia non era così al centro dei pensieri della politica. Non è però dal governo ma da un partito d’opposizione, per quanto anch’esso di orientamento sovranista, che arriva la proposta di legge che mira ad assegnare allo Stato le quote di Bankitalia, della quale al momento sono azionisti in larghissima parte società private (banche, casse di risparmio e società assicurative), con una piccola quota, il 5% circa, in mano a Inps e Inail.
Le perplessità della maggioranza
Prima firmataria del testo, da oggi all’esame della Camera, è la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. “Riportiamo l’Istituto in mani pubbliche”, ha commentato la relatrice al provvedimento in commissione Finanze, Francesca Ruggiero, mentre il collega di partito Alessio Villarosa, sottosegretario all’Economia, ha ricordato che il M5s aveva già depositato nella scorsa legislatura un testo dalle finalità analoghe e spiegato che l’appoggio del Movimento sarà concesso sulla base di un comune accordo con l’alleato leghista. “Il Movimento 5 stelle non ha una posizione. Dobbiamo discuterne tra noi, con i nostri rappresentanti al governo e ovviamente con la Lega”, ha detto invece Giovanni Currò, membro M5s della commissione Finanze,
In teoria il Carroccio non dovrebbe essere contrario allo spirito dell’iniziativa, a partire dal presidente della commissione Bilancio di Montecitorio, Claudio Borghi, dal quale era partita la discussione dei giorni scorsi sulle riserve d’oro. Invece proprio Borghi ha raffreddato gli entusiasmi: “Troppo complicato mettere mano al sistema delle quote, potrebbe essere un’occasione per parlare della governance ma, così come è disegnata, ha delle criticità economiche”.
L’obiettivo della proposta di FdI, oltre a quello di non far più “coincidere controllore e controllato” (qua va detto però che, dai tempi di Bancopoli, le attività di controllo sono sempre più appannaggio della Bce) è quello, altrettanto dichiarato, di non consentire ad attori stranieri di mettere le mani sulle quote di Bankitalia. Alcuni istituti esteri sono già tra gli azionisti, come si evince dalla lista pubblicata sul sito di Palazzo Koch, a partire dalla Bnl controllata dai francesi di Bnp Paribas. E il quadro può mutare ancora in questo senso (basti pensare al sempre animato risiko delle partecipazioni di Generali). Quel che bisogna domandarsi è quanto la proposta di legge abbia implicazioni concrete e quanto voglia essere un segnale politico, se non simbolico.
I poteri degli azionisti
Gli azionisti di Bankitalia, dei quali solo cinque hanno quote sopra il 3% (Intesa, Unicredit, CariBologna, Generali e Carige), non hanno infatti alcun potere sulla governance e le attività istituzionali della banca centrale. Le loro competenze si limitano alle decisioni sulla distribuzione dei dividendi e sulla retrocessione degli utili e delle tasse allo Stato nonché alla nomina dei tredici membri del Consiglio superiore. Quali sono i poteri del Consiglio superiore? Leggiamoli sul sito di Bankitalia:
- Nomina, su proposta del Governatore, il Direttore generale e i Vice Direttori generali e concorre, fornendo un parere, alla procedura di nomina del Governatore.
- Ha competenze su aspetti gestionali, organizzativi e contabili: adotta le deliberazioni riguardanti l’articolazione territoriale e l’assetto organizzativo generale della Banca, approva il bilancio annuale di previsione degli impegni di spesa e gli accordi stipulati con le organizzazioni sindacali e viene informato dal Governatore sui fatti rilevanti concernenti l’amministrazione della Banca (artt. 15, 16, 17, 18 e 19 dello Statuto).
- Tre membri del Consiglio superiore compongono il Comitato consultivo in materia di revisione interna, al quale partecipa anche un Sindaco in qualità di osservatore. Il Comitato fornisce consulenza e supporto al Consiglio superiore e al Governatore in materia di supervisione del sistema dei controlli interni. A tal fine segue l’azione della funzione di revisione interna, valutandone l’adeguatezza e la conformità alla politica di audit dell’Istituto e agli standard internazionali.
Si tratta quindi, per lo più, di funzioni amministrative e di vigilanza interna. È invece piuttosto concreto il dibattito sui dividendi di Bankitalia, un dibattito che è soprattutto accademico, dato che si parla di spiccioli (218 milioni di euro su un utile di 3,9 miliardi per il 2017). C’è chi fa notare che, essendo le quote di Bankitalia non commerciabili, il loro ammontare è del tutto arbitrario. C’è chi afferma che si tratta di un meccanismo inefficiente in quanto, con una partecipazione del tutto pubblica, tali somme resterebbero allo Stato. E c’è chi sottolinea che le cedole sono aumentate in modo consistente da quando le banche che possiedono le quote di Bankitalia (che per legge rimane un istituto di diritto pubblico) sono diventate private. Già, perché non lo sono sempre state.
Cosa significa “riportare l’istituto in mani pubbliche”?
L’attuale assetto di Bankitalia risale alla legge bancaria del 1936. Prima di allora la Banca d’Italia era una società quotata in borsa che prestava denaro alle imprese, ovvero una banca come tutte le altre. Il governo fascista decise invece di farne una “banca delle banche”, ovvero una banca centrale moderna, e a tale scopo espropriò gli azionisti privati e cedette le loro quote a enti finanziari di rilevanza pubblica. Il problema è che, con le privatizzazioni del ’92, tali enti hanno smesso di essere sotto il controllo dello Stato. È quindi verissimo che l’assetto azionario attuale è in aperta contraddizione con la ratio della legge del 1936, che aveva avuto come obiettivo proprio far sloggiare i privati da Palazzo Koch.
La domanda però resta la stessa: a cosa serve, di fatto, nazionalizzare Bankitalia se ormai le decisioni si prendono a Francoforte? Si potrebbe sottolineare che, qualora il governo volesse prepararsi a uno scenario di uscita dalla zona euro, o quantomeno a uno smantellamento coordinato (per Paolo Savona il “cigno nero” non è un’Italia che decide di uscire dalla moneta unica ma un’Italia che ne viene buttata fuori), la nazionalizzazione delle quote sarebbe il presupposto inevitabile di un simile scenario. Insomma, non è detto affatto (anzi, è molto improbabile) che i sovranisti italiani vogliano abbandonare l’euro loro sponte ma è lecito supporre che vogliano prepararsi a tale prospettiva.
Il nodo degli indennizzi
Se la discussione sui possibili obiettivi della riforma è complessa, molto più prosaica è quella sui costi dell’operazione. Già, perché il provvedimento intende far acquisire al ministero dell’Economia le 300 mila azioni in mano agli azionisti al loro valore nominale, che all’epoca era pari a 300 milioni di lire, 156 mila euro odierni. Con la legge del 2013, il capitale di Bankitalia è però stato rivalutato a 7,5 miliardi e solo un terzo degli attuali azionisti ha acquistato le azioni all’attuale valore nominale di 25 mila euro l’una. L’altro 67% dei soggetti che partecipano al capitale le aveva pagate mille lire all’epoca in cui treni arrivavano in orario. Queste società sarebbero quindi titolate a chiedere un indennizzo il cui conto ammonterebbe a diversi miliardi. Perché le quote di Bankitalia, pur non essendo cedibili sul mercato, costituiscono nondimeno un attivo nei loro bilanci. Le “criticità” di cui parlava Borghi sono proprio queste.
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