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La crisi economica innescata dalla pandemia – su questo ormai convergono tutte le previsioni – si annuncia come la più profonda in tempo di pace, con effetti che richiamano la “grande crisi” del 1929. Le ultime stime diffuse dall’Ocse, con riferimento al crollo del Pil pro capite (il livello di ricchezza per abitante), riportano indietro le lancette dell’orologio al 1993. Era l’anno che seguì alla grave crisi finanziaria del 1992, quando la lira uscì dal sistema di cambio europeo, fu necessaria una pesante svalutazione e una maxi-manovra di finanza pubblica ad opera del governo Amato.
Gli ostacoli strutturali che frenano la crescita
Se pure con alcune differenze, le previsioni per quel che riguarda l’andamento dell’economia italiana e dei conti pubblici nel 2020 convergono: sia la Commissione Ue, che il Governo e ora anche l’Ocse stimano che a causa della drastica contrazione del prodotto (che l’Ocse fissa tra l’11,3% e il 14,1% qualora si verifichi una seconda ondata di contagi), il debito che quest’anno avrebbe toccato il picco del 135% del Pil salirà fino a lambire la cifra record del 160% (nell’ipotesi più favorevole), mentre il Governo nelle sue ultime previsioni stima il 155,7% con il deficit che si attesterebbe al 10,4% del Pil. Inevitabile conseguenza del crollo del “denominatore”. Il problema – come rileva Tim Bulman, capo economista del desk Italia all’Ocse – è che il Pil pro capite in termini reali era già tornato ai livelli del 2000, prima dell’esplodere della pandemia. Dunque la crisi innescata dal coronavirus interviene su un’economia che da decenni è alle prese con bassi tassi di produttività. Prima dell’euro la strada usuale era quella delle cosiddette svalutazioni competitive della moneta nazionale. Ora la ricetta per far fronte a un problema strutturale di bassa crescita è rimuovere gli ostacoli che ne frenano lo sviluppo. Per questo l’occasione offerta dall’ingente quantità di risorse in arrivo dall’Europa (sotto varie forme) è da cogliere senza esitazioni così da avviare un credibile percorso di riforme strutturali in grado di riportare l’economia a livelli di crescita soddisfacenti.
La ricetta per ridurre il debito
La strada maestra per avviare la riduzione graduale del debito è spingere con forza sul pedale della crescita. In che modo? Attraverso un sapiente dosaggio di investimenti pubblici e privati accompagnato da un piano articolato di riforme strutturali, a partire dal fisco. Soprattutto in una fase come l’attuale, il segnale in termini di equità che verrebbe da una più incisiva lotta all’evasione sarebbe fondamentale, anche per la tenuta sociale del paese. Le riforme strutturali – che il governo si propone di presentare a Bruxelles tra settembre e ottobre e che dovrebbero ricevere nuovo impulso dagli “Stati generali dell’economia” – dovranno inevitabilmente investire il capitolo decisivo delle semplificazioni e dello snellimento degli oneri burocratici e amministrativi, oltre che dell’accelerazione dei tempi della giustizia civile. E poi, in linea con quanto deciso con il decreto rilancio, occorre investire con determinazione sui settori che “creano futuro”: istruzione, formazione, ricerca, oltre a potenziare gli investimenti nella sanità. E occorre finalmente rimuovere i vincoli che frenano gli investimenti e riducono il potenziale di crescita dell’economia.
Mes senza condizioni per il servizio sanitario
Non vi è dubbio (al netto della polemica politica) che al nostro Paese convenga accedere alla nuova linea di credito del Meccanismo europeo di stabilità. Risorse per 36-37 miliardi da indirizzare subito al potenziamento del servizio sanitario. Secondo quanto ha calcolato il direttore generale del Mes, Klaus Regling, trattandosi di un prestito offerto a tassi vicini allo zero (se non addirittura negativi), il nostro paese risparmierebbe «fino a 7 miliardi» rispetto a quanto dovrebbe spendere ora in termini di interessi passivi per finanziare la stessa somma sui mercati. L’unica condizione è che le nuove risorse siano dirette a coprire i costi “diretti e indiretti” della sanità. Il rischio stigma da parte dei mercati? Non sembra proprio questo il rischio, per un paese che ha un debito pubblico che ammonta al momento a oltre 2.400 miliardi (l’ammontare del nuovo prestito è pari al 2% del Pil). Al contrario, se la sostenibilità del nostro debito fosse ulteriormente garantita dal pieno utilizzo di tutte le risorse europee a disposizioni, la risposta in termini di rinnovata fiducia da parte dei mercati sarebbe immediata. Come rileva l’Ocse, il debito italiano è pienamente sostenibile se continuerà a finanziarsi “a tassi ragionevoli” come avviene ora grazie alla Bce.